23 Gennaio 2015
Via Dogana n. 111

A proposito del sedicente Stato islamico (o Isis)

di Aïcha El Hajjami

 

Glossario

Khilafa: è il nome dato al sistema politico instaurato dopo la morte del profeta. L’etimologia è il verbo khalafa, che significa “succedere a qualcuno”, nel contesto islamico “succedere al Profeta”. Si parla di khilafa râchida per designare il periodo seguito alla morte del profeta, considerato come il più compiuto e il più giusto.

Khalifa (califfo): colui che è investito del potere di succedere al profeta. Il vicario. In seguito questo titolo è stato poi attribuito al capo di Stato musulmano, sia nella monarchia sia in altri sistemi.

Al-Bay’a: l’atto di fedeltà. L’atto con cui il musulmano riconosce il Khalifa come tale.

Umma: l’insieme dei musulmani.

Hadith: parole del profeta.

Jihâd e ijtihâd: Etimologicamente, il termine jihâd viene dalla radice jouhd e jahada, che siginifica “sforzo”. Da cui ijtihâd, sforzo intellettuale. La definizione di jihâd come guerra “sacra” non figura da nessuna parte nelle scritture o nella letteratura dell’islam. È una definizione data dagli orientalisti e penso che sia sta presa dalla letteratura delle crociate. La jihâd nell’accezione coranica e in quella del profeta è una guerra difensiva contro degli aggressori. Il profeta, di ritorno dall’ultima battaglia che aveva dovuto dare contro i Quràysh, aveva detto ai suoi compagni: «Noi siamo tornati dal piccolo jihâd; dobbiamo consacrarci al grande jihâd, che è lo jihâd contro le nostre pulsioni, “jihâd an-nafs”». È di questo che abbiamo bisogno in questo momento.

 

Il sedicente Stato islamico è un fenomeno che rappresenta la corrente più radicale nell’islam politico nato negli ultimi trent’anni, e ha per obiettivo la restaurazione della khilafa râchida.

Quest’ultima rimanda al periodo successivo alla morte del profeta (nel 632), che ha visto il governo successivo dei primi quattro califfi: Abū Bakr, ’Umar, Othmàn e ʿAlī, ed è finito con l’instaurazione della dinastia Omayyade nel 662.

Questa fase rappresenta per la maggior parte dei musulmani l’età dell’oro del potere politico islamico, caratterizzata in particolare dal rispetto dei principi di giustizia e di equità, da cui l’appellativo râchida, che vuol dire “ragionevole, matura”. Per questo, la khilafa râchida si è trasformata in una specie di utopia nell’immaginario dei musulmani, soprattutto in periodi di dittature e crisi politiche.

Sul piano teorico, la khilafa, o potere politico tout-court, ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro durante tutta la storia dell’islam.

La maggioranza dei pensatori musulmani, i classici (come al-Māwardī, Ibn Khaldūn…) o i riformatori del XIX e XX secolo (come Khair Ed-Dine, al-Kawākibī, Muhammed Iqbal…), ritengono che l’islam non abbia instaurato o raccomandato un particolare sistema politico. Ha lasciato i musulmani liberi di scegliere il sistema politico che preferiscono a seconda dei contesti e si è accontentato di raccomandare, nella gestione degli affari pubblici, il rispetto di un certo numero di principi, come il principio della consultazione, Shoura, quello di giustizia, quello di equità.

Invece, per una piccola minoranza tra i musulmani, la Khilafa è un obbligo islamico ineludibile, e la Umma deve imperativamente scegliere un Khalifa, incaricato di gestirne gli affari secondo le regole islamiche in materia.

I movimenti radicali dell’islam politico contemporaneo, di cui fa parte anche il fenomeno del sedicente “Stato islamico”, si iscrivono in questa tendenza, che non è affatto basata su un qualche pensiero religioso o fondamento intellettuale, ma è soprattutto di ordine ideologico. Quello che dell’islam conservano resta puramente formale, letterale, non hanno capito niente dei veri valori dell’islam né del suo spirito. Questa mancanza di profondità si traduce in un forte attaccamento ai soli aspetti esteriori della Khilafa râchida, cioè: investire un Khalifa attraverso la Bay’a dell’Umma. Così, individui e gruppuscoli di diversi paesi giurano fedeltà a al-Baghdadi e si uniscono alle sue truppe, attratti dai simboli esibiti dal cosiddetto Stato islamico, e non riflettono neanche lontanamente sul fatto che ad aver determinato il successo della vera Khilafa -râchida, malgrado gli sconvolgimenti che ha conosciuto, è stata l’applicazione dei veri valori di giustizia, rispetto per gli altri e d’innovazione dell’islam.

Per loro è imperativo restaurare la Khilafa islamica così come se la immaginano, con tutti i mezzi, soprattutto attraverso la Jihâd (la guerra santa) contro chiunque vi si opponga, che si tratti di musulmani (apostati, ai loro occhi) o di altri (gli infedeli). È la ragione per cui hanno subito proclamato uno di loro, al-Baghdadi, Khalifa di tutti i musulmani e hanno cominciato ad applicare quello che credono essere la legge islamica: tagliare le teste, rapire le donne considerate come bottino di guerra, applicare pene corporali… Ogni forma di violenza è giustificata dal ricorso a versetti delle scritture estrapolati dal loro contesto e interpretati in modo contorto, e allo stesso modo non esitano a basarsi su hadith apocrifi ogni volta che li trovano funzionali ai loro piani.

Le conseguenze sono drammatiche su tutti i piani e noi, noi musulmani e soprattutto noi donne, siamo le prime vittime della loro barbarie. Perché quella gente predica una lettura superficiale delle scritture dell’islam, una lettura che riduce le donne a esseri sottomessi, subordinati, che devono obbedienza agli uomini, così come devono subire le violenze che derivano da regole giuridiche imposte da un dogmatismo chiuso e completamente opposto ai diritti riconosciuti dal Corano alle donne in un contesto tribale e schiavista.

 

Ora, come spiegare la comparsa di questo fenomeno?

Dal mio punto di vista, e senza la minima intenzione di giustificare i loro atti barbari e inumani, penso che siano il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni.

1) Per prima cosa c’è una spiegazione endogena, nella quale la responsabilità è dei nostri Stati e dei nostri/delle nostre intellettuali. L’oscurantismo religioso è stato nutrito a lungo dai nostri dirigenti, che percepivano nel pensiero religioso critico una forma di sovversione da mettere a tacere con tutti i mezzi, e continuano a farlo in diversi paesi (tra cui l’Arabia Saudita, e non è un caso se i jihadisti più estremisti vengono da quel paese). I programmi scolastici sono zeppi di riferimenti infondati a una sedicente Sharīʿa, quando invece si tratta solo di un’interpretazione umana di giuristi influenzati dal loro contesto sociale maschilista e patriarcale. La condizione delle donne ne risente tutti i giorni, con i matrimoni precoci e forzati, i ripudi, le violenze…

2) D’altro canto, c’è di che interrogarsi sulle conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabo-musulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali; del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro.

Negli stessi paesi occidentali, i musulmani immigrati vengono spesso stigmatizzati ed emarginati quotidianamente, mentre i loro antenati hanno difeso a prezzo della vita quei paesi dal nazismo e i loro discendenti hanno contribuito con il loro sudore alla ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra. Questo spiega l’elevato numero di giovani arruolati dai jihadisti tra gli immigrati di seconda e terza generazione, che per di più hanno studiato in Occidente e non possono aver accesso ai testi religiosi per coglierne i veri valori. Così sono facile preda degli illetterati dell’islam radicale.

La nuova generazione ha bisogno di credere nel futuro per non cadere tra le mani degli estremisti di ogni fazione. Gli slogan gridati dalle popolazioni durante le primavere arabe si focalizzavano essenzialmente su rivendicazioni di giustizia e di libertà. Chiaramente queste due rivendicazioni si scontrano frontalmente con gli interessi di certi poteri locali e dei loro alleati occidentali. Il che spiega il caos che ne è seguito.

 

Dunque, cosa dobbiamo fare?

Nessuno ha una soluzione miracolosa, in particolare non lo è l’intervento americano, che non risolverà assolutamente niente e non farà che attizzare ancora di più l’odio e i risentimenti in una popolazione frustrata e oppressa dalle violenze. Stanno riproducendo gli stessi errori, con la stessa cecità. È un circolo vizioso le cui conseguenze saranno forse peggiori di quello a cui già assistiamo.

Ciò di cui abbiamo bisogno nelle nostre società arabo-musulmane è una vera presa di coscienza delle reali radici delle nostre crisi successive e del nostro ritardo. Abbiamo bisogno di un pensiero critico sul nostro patrimonio religioso e culturale, così come sulle sfide che ci vengono dalle ricadute della modernità e dalla globalizzazione. Dobbiamo occuparci di risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne. Bisognerebbe anche agire sugli aspetti economici dello sviluppo e aver cura di assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali.

La jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd. Sì, è dell’itjihâd che abbiamo bisogno per rinnovare il nostro spazio culturale e trasmettere i veri valori dell’islam alle nuove generazioni: i valori di pace, fraternità, giustizia e uguaglianza. Questa è la responsabilità di tutti e di ciascuno di noi, potere politico, società civile, cittadini e intellettuali, uomini e donne. Anch’io sono scivolata nell’utopia? Mi permetto di sognare!

(Traduzione dal francese di Silvia Baratella, Via Dogana n. 111, dicembre 2014)

 

Aïcha El Hajjami ha insegnato dal 1999 al 2005 alle facoltà di giurisprudenza di Fès e Marrakech, dipartimento di diritto pubblico. È ricercatrice e studiosa dell’Islam e si occupa in particolare del diritto delle donne, dello studio e dell’applicazione del diritto di famiglia, della partecipazione politica, della posizione giuridica e politica delle donne nell’Islam. È anche consulente per organismi nazionali e internazionali. È conosciuta per aver tenuto una lezione al re del Marocco Mohamed VI durante il Ramadan del 2004 (vedi Via Dogana 73, giugno 2005, Il re e la maestra). Nel 2008 è stata ospite al Circolo della rosa di Milano.

 

(Via Dogana n. 111, dicembre 2014)

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