8 Luglio 2016
la Repubblica

Ada Colau: «Bisogna tornare a fare politica in strada»

di Concita De Gregorio

BARCELLONA – Ada Colau, da un anno sindaca di Barcellona, è la personalità politica più interessante nel panorama della sinistra spagnola, da molti indicata come la prossima leader nazionale di una formazione in grado di contendere il governo ai due partiti che si sono finora alternati alla guida del paese, in democrazia: il Psoe e il Pp. Il suo partito non è Podemos: è stata eletta sindaca a giugno del 2015 alla testa di una lista civica, Barcelona en Comú, nata dall’esperienza di movimenti di cittadinanza trasversali e apartitici. In particolare Ada Colau è stata leader della “piattaforma degli sfrattati” cresciuta negli anni della bolla immobiliare, quando le ipoteche delle banche hanno sottratto la casa a migliaia di persone e impoverito radicalmente il ceto medio che, indignato, è sceso in piazza. Alle politiche del 26 giugno Barcelona en Comú si è presentata alleata con Podemos (“En Comú Podem”, la sigla: “Insieme possiamo”) e ha di nuovo vinto, in Catalogna, le elezioni. Un successo in controtendenza con la flessione di Podemos a livello nazionale, leggera ma assai deludente rispetto alle aspettative di sorpasso del Psoe: il sorpasso non c’è stato e la leadership di Iglesias, sostenitore dell’alleanza con Izquierda unida, ne è uscita appannata. In prospettiva la figura della sindaca di Barcellona, una giovane donna di 42 anni, è quella che genera le maggiori aspettative di ricambio nel panorama della nuova sinistra.

 

In questa intervista parla di politica, naturalmente, ma anche della sua vita privata: di sua madre, dei suoi nonni, della sua infanzia, della sua idea di futuro, di suo figlio. Parla un ottimo italiano imparato a Milano durante il suo Erasmus, da studentessa di filosofia. La “canzone segreta” con cui addormenta Luca, 5 anni – dice – è la musica di Amarcord di Nino Rota.

 

A cosa attribuisce la perdita di un milione e 200mila voti da parte di Podemos rispetto al voto di sei mesi fa?

«La politica è fatta da persone, non è un algoritmo. Il progresso, che nasce dalla società e si riflette col tempo nelle istituzioni, ha momenti in cui va avanti, poi indietro, pause, dubbi. Non è una linea in cui dopo A viene B e poi C. Podemos si è presentato sulla scena e subito ha vinto le europee, poi le città nelle amministrative: è sembrato che la conseguenza logica fosse che alle prime politiche superasse il Psoe, addirittura sconfiggesse il Pp. Beh, no. È più logico che non accada. Parliamo di strutture di potere che governano da decenni, che hanno alleanza con i poteri economici, con i media più potenti. Era evidente che non sarebbe stato facile. Certo c’è stato un errore nella campagna elettorale e bisogna fare autocritica. Neppure bisogna pensare né che le gente sia sciocca o che sia pigra. Si era creata una grande aspettativa e molti non sono andati a votare. Non possiamo dimenticare quello che abbiamo detto sempre: il cambiamento reale si deve produrre nella società. Se smettiamo di lavorare nei quartieri, nella vita quotidiana, nei luoghi di vita e di lavoro per molto che tu indovini il messaggio o il candidato, sarà sempre una vittoria effimera. Non sono una persona o uno slogan che cambiano il Paese. Podemos ha sempre vinto fra i giovani, fra chi non votava e nei ceti popolari: in questo senso è un voto “di classe”. Deve restare lì per crescere. Bisogna essere ambiziosi e utopisti per cambiare ma restare alle cose concrete».

 

Trova che Podemos stia perdendo contatto con queste parti della società?

«Dico che non deve perderlo. Poi le cause dell’astensione sono molte: stanchezza per tante convocazioni alle urne, frustrazione per il fatto che dopo il primo voto non si sia riusciti a formare un governo, la Brexit, la crisi, la paura. Tante cose hanno influenzato, non una».

 

Pensa che dopo Brexit il sostegno di Podemos alla causa dell’indipendenza catalana abbia spaventato gli elettori?

«Vede, questo è un esempio della impressionante macchina di propaganda di cui dispongono Pp e Psoe. Hanno fatto campagna sui finanziamenti dal Venezuela, sull’indipendenza catalana, poi l’ultimo giorno hanno cavalcato Brexit. Smontare queste paure è il nostro lavoro ma serve tempo. Le spiegazioni semplici sono un errore al quale ci vogliono portare. Non si tratta di volere o no l’indipendenza catalana: si tratta di fare un referendum che l’80 per cento della popolazione chiede. Bisogna difendere in senso profondo la sovranità di tutti i popoli, non solo dei catalani. Decentrare il potere, la cittadinanza deve avere l’ultima parola. Quanto più si tenta di impedire ai cittadini di esprimersi tanto peggio sarà, sempre».

 

Si riesce a governare dando così spesso la parola ai cittadini?

«Questo dell’eccesso di democrazia è una caricatura diffusa da chi non vuole che le cose cambino.Quando parlo di sovranità della cittadinanza parlo di pratiche che la gente ha già messo in atto. Non di assemblea permanente: sarebbe stupido e infantile. Il sistema politico deve mettersi accanto e accompagnare i processi che si producono da soli. Un governo del cambiamento passa per un approfondimento della democrazia che vuol dire partecipazione e trasparenza, eliminare i meccanismi che alimentano le corruzione, la politica sottomessa al potere bancario. La società è molto avanti: lavora in rete per obiettivi ed è molto più agile delle istituzioni. La gente si organizza. I movimenti sociali sono cresciuti con i telefoni, le reti hanno fatto politica molto agile, efficace. La dicotomia fra efficacia di governo e orizzontalità di partecipazione è falsa. Noi lo dimostriamo».

 

Lei ha messo al centro delle sue politiche i diritti civili e ha detto che lavora per una femminilizzazione della politica non solo nei numeri ma nei valori e nelle pratiche. I movimenti, a Barcellona, usano il femminile plurale per indicare tutti: un uomo quando parla dice noialtre. Crede che sia il modo giusto?

«È vero, nei movimenti da anni è una pratica comune usare il femminile plurale per dire tutti: non so se sia il modo più efficace ma certo indica il tema. Che il maschile plurale sia il modo per dire uomini e donne è l’esito di una cultura patriarcale. Le differenze di genere sono soprattutto culturali, ma sono reali. Con le donne è più semplice lavorare in rete, collaborare invece che fare una gara, una battaglia. In politica questa è un’esperienza molto chiara. Femminilizzare significa questo, per me: c’è un modo non maschile ma maschilista di fare politica – verticale autoritario di comando – e c’è un altro un modo dove l’autorità non viene dall’imposizione ma dal riconoscimento. Quando gli altri ti riconoscono che sei utile. Per decenni la società maschilista e capitalista ha messo al centro il potere, l’accumulazione, i soldi. Penso che oggi ci siano sempre più donne e uomini pronti a mettere al centro la cura».

 

Lei, anche da sindaca, si scontra con le banche. Qual è il suo rapporto col denaro?

«Da sindaca più ancora che da attivista sono consapevole del fatto che non sono mai i soldi a risolvere le questioni principali. I cambiamenti di cui abbiamo bisogno sono soprattutto del modo di organizzare la società. Non mi sono mai trovata in una situazione in cui la soluzione erano solo i soldi. Eppure ne conosco bene il valore. Vengo da una famiglia popolare, in casa abbiamo sofferto la povertà. Quando sei povera i soldi ti mancano per vestirti, per prendere la metro, perché i tuoi amici escono e tu non puoi. Da ragazza quando ne avevo li spendevo nei libri: ancora oggi l’unica mia proprietà è la mia biblioteca. Non ho bisogno di una casa, posso vivere in affitto. Ma i libri sono miei. Da piccola li nascondevo in cima all’armadio».

 

Sopra l’armadio?

«Sono la prima di quattro sorelle, con molta distanza dalla seconda. Dormivamo nella stessa stanza, io in alto nel letto a castello. Da lì toccavo la cima dell’armadio e ci nascondevo le mie cose: qualche cibo, i quaderni. Era il mio rifugio segreto, quando avevo bisogno di stare da sola. Ero molto timida, allora. Mi vergognavo di essere diversa dagli altri. Ma no, paura no, non ho mai avuto paura del “mondo fuori”: al contrario, da mia madre Tina ho imparato quella che credo sia la sua e la mia dote principale, l’empatia. Non ha studiato, ha sempre dovuto fare mestieri che non le piacevano ma è aperta al mondo, in ascolto, vive con gli altri».
Se potesse vorrebbe sapere qualcosa del suo futuro?

«No, sapere il futuro ti condanna a realizzarlo. Preferisco costruirlo».

 

E del passato, qualcosa che vorrebbe rivivere?

«Per una sera, i miei nonni. Sono morti prima che diventassi madre e sindaca. Vorrei mostrare loro mio figlio, da cui imparo ogni sera ad avere di nuovo fiducia nelle persone, e vorrei che vedessero il risultato di tanta loro fatica: che mi vedessero al lavoro qui, qualcosa che davvero non avrebbero mai potuto immaginare. Sarebbero così felici».


(la Repubblica, 8/7/2016)

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