9 Agosto 2018
L'Espresso

Ada Colau: «La questione migranti mi preoccupa? No, mi fa vergognare»

di Francesca Sironi  

Tutto intornoleader che appassiscono nel tempo di una giostra; partiti che sbandano di fronte al razzismo, alle istituzioni svuotate via Facebook, alle prospettive di lavoro erose, a un’Europa impegnata a costruire barriere. In un panorama così, Ada Colau sembra parlare davvero dalla luna rossa dell’altra notte, mentre discute “fiducia”, “democrazie aperte”, “potere ai cittadini”.

Però non solo ne discute, cerca anche di scansare il rischio di accordarsi alla retorica, portando esempi di pratiche messe in campo nella sua città, che raccontino nel concreto la possibilità che lei vede, e in cui crede, di riformare dal basso «quest’Europa unita per le merci e i grandi patrimoni, non per le persone», partendo soprattutto dalle città, «dove davvero si può ricostruire la comunità, perché lo straniero, ad esempio, non è “l’altro” che spaventa ma è il mio vicino, è il papà che incontro a scuola».

Ada Colau è sindaco di Barcellona dal 2015. Eletta con “Barcelona en Comú”, lista civica che univa Podemos ad altre sigle, è arrivata all’istituzione dopo anni di militanza per il diritto alla casa, da attivista di strada, in prima fila contro gli sgomberi. Insieme a Podemos, è stata uno dei volti della primavera degli “indignati”, quando le novità sembravano promessa di un futuro solidale nei paesi europei.

Il vento ha fatto un altro giro, adesso le parole d’ordine ai governi sono frontiere, difesa, controllo. Davanti a questa china, Ada Colau continua a navigare controcorrente. E lo scontro con la realtà amministrativa non ha offuscato la sua voce. Anzi. I sondaggi dopo i primi due anni di mandato le davano un appoggio del 52,2 per cento fra i cittadini. Le ultime ricerche dicono che verrebbe riconfermata alla guida di Barcellona, alle prossime elezioni. E fuori dai confini, i movimenti progressisti si contendono la sua alleanza o il suo sostegno.

Sindaca, cos’ha Barcellona di così particolare? Perché la sua giunta sembra diventata un faro – fra i pochi – della sinistra?
«Perché siamo un gruppo di persone affiatate, credo, che si stanno impegnando al massimo. I dipendenti del municipio un giorno mi hanno detto: “Non avevamo mai visto dei politici lavorare così tanto”. Un funzionario, il responsabile della fiscalità generale, stava andando in pensione. Durante la festa organizzata dai colleghi per salutarlo, ha voluto dirci che siamo stati la prima giunta, in tutta la sua carriera, in cui nessuno gli ha chiesto di annullare una multa o fare un favore a un amico. Mi sono commossa.
Ma non ci basta essere “gli onesti”, quelli che gestiscono la città semplicemente in modo più corretto o trasparente. Non ci immaginavamo di arrivare qui, o di dover superare il momento più difficile del nostro Paese, con il referendum per l’indipendenza della Catalogna e la repressione fatta dal partito Popolare. Ma ora che abbiamo questa responsabilità, e sentiamo di dover essere ambiziosi: dobbiamo portare avanti politiche coraggiose. Penso ad esempio a quanto stiamo facendo sull’energia, un tema fondamentale per il futuro».

Ecco, esempi. Ne indichi alcuni.
«Quello che è successo con la privatizzazione dell’acqua, o con l’avanzata degli oligopoli nell’energia, è una delle molte spiegazioni del perché i partiti di sinistra abbiano perso credibilità: i consigli di amministrazione di queste aziende private, che gestiscono i servizi senza trasparenza e con prezzi altissimi, sono pieni di politici socialisti. A Barcellona abbiamo invece rimunicipalizzato le forniture, con un operatore pubblico che usa fonti rinnovabili e ci permette di essere sempre più autonomi. Mentre sull’acqua, grazie alle nuove regole per la partecipazione popolare che abbiamo varato, i comitati per l’acqua pubblica hanno potuto portare la loro proposta in consiglio comunale. Senza passare da un partito: direttamente, da cittadini, grazie alle firme raccolte. La multinazionale che aveva in gestione il servizio idrico ha allora ingaggiato grandi studi d’avvocati per farci causa. Intentando ricorso non solo sul caso specifico, ma contro l’intero sistema di regole per la partecipazione. La questione è ancora aperta ma intanto, di sicuro, ha dato visibilità a un dilemma politico che esisteva anche prima, ma nascosto. Ha messo sul tavolo cioè il dissidio cruciale, presente, fra gli interessi di quei privati e la possibilità di partecipazione da parte dei cittadini».

Partecipazione. È una delle parole chiave del “modello Barcellona”. Ma cosa vuol dire nei fatti?
«Aggiornare le forme delle nostre democrazie è fondamentale. La società è cambiata. Non può non cambiare anche il sistema dei partiti. Abbiamo bisogno di strutture più ibride, più simili alle comunità che devono rappresentare: il partito, con le sue gerarchie, i suoi riti chiusi, alla gente sembra avere come fine primario solo la sua continuazione, più che le risposte alle persone. Oggi bisogna ragionare per obiettivi concreti, per campagne e progetti, non per strutture. Non si tratta di proporre programmi chiusi a cui il cittadino aderisce e poi scompare. La fiducia persa dai politici per i troppi casi di corruzione, per la distanza dai problemi comuni, si riconquista attraverso una pratica democratica continua, con Internet e non solo. Di certo non può servire la tessera per avere voce. E per una partecipazione che non sia retorica, ma esercizio concreto della possibilità di intervenire e scegliere. Anche nelle stesse istituzioni: le burocrazie lente e ostili devono diventare uffici pubblici efficaci, moderni, in sintonia con il tempo. La società ci spinge a cambiare».

In Italia il movimento anti-casta che aveva fatto della partecipazione la propria bandiera e del cambiamento il proprio slogan, ora spartisce poltrone con la Lega sovranista e vaticina la fine del Parlamento.
«L’errore è sempre confondere gli obiettivi con gli strumenti. Gli strumenti non sono neutri né innocenti, possono essere più o meno orizzontali o trasparenti; e sono fondamentali. Ma restano strumenti. Però poi la politica è fatta dalle persone e dai loro obiettivi, idee, valori. Che per la sinistra restano sempre gli stessi: libertà, uguaglianza, fraternità. E devono essere continuamente riportati a pratiche sociali, reali».

Parlando di pratiche, lei come ha vissuto il passaggio da attivista a sindaca? Il compromesso del potere può solo inquinare le volontà?
«Dico sempre che io sono la stessa persona. Da attivista ho capito molto sul potere che hanno i cittadini; e oggi ho gli stessi obiettivi di allora: una democrazia più aperta. Fin dal primo giorno come sindaca, però, sono stata consapevole del mio nuovo ruolo. Quando hai un incarico istituzionale devi rendere conto a tutta la popolazione, non solo a chi la pensa come te. Da attivista cerchi gli affini, mentre da sindaca hai un’altra responsabilità. Hai un incarico, pagato con soldi pubblici, che ti richiede di ascoltare ogni parte della cittadinanza, allargare il consenso. Ma sul piano personale non c’è alcuna frattura».

Chi sono i suoi affini oggi? Dove sta la sinistra? 
«Innanzitutto nelle città. È dalle città che va rifondata l’Europa, dal basso. I giornali spagnoli mi chiedono continuamente: “Ci dica la verità, lei vuole competere per diventare premier”. Non mi credono quando rispondo di no. Considerano il Comune meno importante, ma è un’errore. La politica locale, in prospettiva, sarà sempre più centrale. Per questo sono molto concentrata su questa rete di città “fearless” – senza paura – che abbiamo fondato. Si è appena tenuto un congresso negli Stati Uniti: anche lì la resistenza a Trump si sta consolidando a partire dalle città. Ho conosciuto Alexandria Ocasio-Cortez (la giovane sfidante socialista di New York, ndr), siamo vicine. Abbiamo lo stesso obiettivo: trovare soluzioni ai problemi della gente. La rete che ho in mente unisce progetti, non abbiamo fretta di creare sovrastrutture. E poi ci sono le esperienze che ci accomunano come sindaci. Penso ad esempio a Napoli o Palermo con l’alleanza delle città rifugio, che vogliono accogliere. Come accade in esempi quali in Calabria Riace, che sono felice di conoscere finalmente di persona perché è una risposta bella, e concreta, a una politica codarda».

La questione migranti la spaventa?
«No. Mi fa vergognare. A Barcellona ci vergogniamo delle politiche degli Stati sui migranti. In quest’Europa tecnocratica garantiamo tutti i diritti ai grandi capitali ma abbiamo dimenticato le persone. Si crea ricchezza, ma la si distribuisce in modo ingiusto. E allora è più facile cedere al discorso dell’altro come “nemico che minaccia la nostra identità”. Ma noi non abbiamo paura. Di fronte alla terrificante crisi umanitaria del Mediterraneo, dove la criminale politica europea sta condannando a affogare migliaia di persone, abbiamo scelto di aiutare e sostenere in ogni modo la missione di Open Arms. Così come abbiamo investito risorse per dare consulenze legali a chi arriva e garantire che i profughi siano trattati da cittadini, con l’accesso a tutti i servizi municipali. Poi non sono ingenua: si tratta di dinamiche complesse, su cui l’Italia ha ragione a chiedere risposte comuni. Ma è proprio per quelle risposte comuni, europee, nel senso dell’apertura e della condivisione delle responsabilità però, che ci battiamo anche noi».

Il sentimento collettivo sembra soffiare però contro l’accoglienza. La chiusura dei porti viene applaudita, ha consensi.
«Una democrazia forte, che ha un progetto di futuro, non ha bisogno di chiudersi. Ma non voglio minimizzare. Fra gli errori più importanti della sinistra di sicuro c’è stato il non aver visto come il liberismo sfrenato stesse portando incertezze e paura nella popolazione: non sappiamo se domani avremo un lavoro, o la pensione, sappiamo che i nostri figli rischiano di stare peggio di noi; oltre alla minaccia del terrorismo globale. Sono paure vere, e legittime che non bisogna negare. Vanno guardate negli occhi. Per trovare però delle soluzioni concrete. Che ridiano spazio alla comunità. E non alla paura».

È possibile?
«Anche questa Europa vecchia e in crisi è piena di persone generose e di progetti straordinari. Abbiamo spesso una pessima idea di noi stessi, che diventa poi una profezia che si autoavvera. Mentre gli esempi da cui riprendere fiducia sono moltissimi. E il nostro compito, come diceva Italo Calvino, è proprio “cercare e saper riconoscere cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”».

(L’Espresso, 9 agosto 2018)

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