11 Aprile 2015
il manifesto

Addio a Judith Malina, la poetessa della rivoluzione

di Cristina Piccino


Lutto nel teatro. Se ne va la fondatrice del
Living Theatre, anarchica, pacifista, un’icona del Sessantotto. Aveva 88 anni, dalla morte di Julian Beck, aveva continuato la ricerca di un’arte sempre legata alla vita

 

Judith Malina era pic­cola pic­cola eppure quando arri­vava in scena la sua pre­senza sem­brava occu­pare la sala intera: le sedie degli spet­ta­tori, i cor­ri­doi, l’esterno come se la sua voce, e quel suo corpo minuto aves­sero per sem­pre supe­rato le bar­riere non solo tra chi «recita» e chi «guarda» ma dello spa­zio intero, e del tempo rein­ven­tan­doli con la dol­cezza com­bat­tiva della sua poesia.

Adesso Judith Malina se ne è andata, aveva 88 anni, e da qual­che tempo viveva in una casa di riposo per anziani attori, la Lilian Booth Actors Home. Il Living aveva perso la sua sede su Clin­ton Street, a New Yok, non riu­sci­vano più a pagare l’affitto nono­stante l’aiuto degli amici, come Yoko Ono o Al Pacino. Era una vec­chia sto­ria, lo rac­con­tava anche lei che il Living aveva avuto sem­pre dif­fi­coltà, ma Judith che aveva spe­rato fino all’ultimo in qual­che finan­zia­mento. Diceva: «Qui sono gen­tili, io però non so vivere in un isti­tuto. In Ame­rica gli anziani sono dimen­ti­cati». E forse con lei è stato messo da parte anche un modo di essere, di intrec­ciare l’arte e la vita, di spe­ri­men­tarle alla prima persona.

Sul New York Times di ieri, che a Judith Malina dedica un lungo e bell’articolo, col­pi­sce l’inizio: «Per quelli che non sono vec­chi abba­stanza da ricor­dare i beat­niks, Lenny Bruce, le pro­te­ste con­tro la guerra del Viet­nam, Judith Malina era un’attrice nella serie dei Soprano dove inter­pre­tava zia Dot­tie». Niente di strano, i tempi cam­biano, e Malina col suo tempo, attra­verso gli anni ci si era sem­pre con­fron­tata non senza scon­tri pesanti. Ma solo così nel Ses­san­totto Judith Malina e Julian Beck pote­vano scuo­tere il tea­tro (e il mondo) con uno spet­ta­colo come Para­dise Now. Scan­dalo a Avi­gnone, scan­dalo in Ame­rica. Den­tro vi entrava con pre­po­tenza il Mag­gio pari­gino con le sue bar­ri­cate, gli scon­tri di piazza, il desi­de­rio impos­si­bile dei suoi sogna­tori di un’utopia ora e subito, di un para­diso che è fine del capi­ta­li­smo, dei proi­bi­zio­ni­smi, gioia e cibo per tutti, sen­sua­lità, amore e pace, corpi nudi e libe­rati che si fondono.

Certo, era forse irri­pe­ti­bile que­sto sogno di tea­tro (e del mondo) che li ha resi molto amati – e molto cri­ti­cati – che gli è costato cen­sure, pri­gione, per­se­cu­zioni senza che si arren­des­sero, sfi­dando anche la dit­ta­tura in Brasile.

Malina però con­ti­nuava a essere un rife­ri­mento impor­tante per le nuove gene­ra­zioni tea­trali, almeno qui. Per esem­pio l’incontro tra lei e i Motus, da cui è nato uno spet­ta­colo intenso, in scena era insieme a Sil­via Cal­de­roli, la loro magni­fica inter­prete, due età lon­tane e vicine nel sen­ti­mento e nel rac­conto di una (pos­si­bile) uto­pia. Lo spet­ta­colo si chia­mava The Plot is the Revo­lu­tion, rimando a Para­dise Now, e si chie­deva se nel nostro «asso­pito occi­dente» si può ancora imma­gi­nare un rovesciamento.

Rivo­lu­zio­na­rio è la defi­ni­zione pri­vi­le­giata per il Living sin dagli inizi, e in par­ti­co­lare per loro due, Judith Malina e Julian Beck. Ma rivo­lu­zio­nari lo erano dav­vero, per quel essere tea­tro e vita senza reto­rica nel quo­ti­diano, in un gesto arti­stico che spe­ri­men­tava una pos­si­bile pra­tica rivoluzionaria.

Judith Malina era nata a Kiel, in Ger­ma­nia, nel 1926, fami­glia ebrea, i suoi geni­tori erano emi­grati in Ame­rica dopo la sua nascita. Lei fre­quenta la scuola di tea­tro di Erwin Pisca­tor, ha vent’anni quando incon­tra Julian Beck. Insieme con­di­vi­dono la stessa pas­sione, e l’idea di un’arte con cui si può radi­cal­mente rein­ven­tare il mondo. Nel 1947 fon­dano il Living, e met­tono in scena al Vil­lage di New York un testo di Ger­tud Stein: Doc­tor Fau­stus Lights the Lights. «Cre­diamo che il tea­tro sia un luogo di intense espe­rienze, tra sogno e rito, in cui lo spet­ta­tore coglie un lampo di cono­scenza di sé» scri­vono qual­che anno dopo. Il tea­tro (e il corpo, la parola) nelle loro mani di anar­chici e paci­fi­sti diventa un’arma unica, potente, e per que­sto li con­si­de­rano subito pericolosissimi.

Nell’America degli anni Cin­quanta di boom, otti­mi­smo, con­trollo, Malina e Beck scuo­tono i loro spet­ta­tori mesco­lando per­fo­mance e poe­sia, Eliot e Coc­teau: rom­pere le con­ven­zioni del lin­guag­gio tea­trale signi­fica anche rom­pere l’ordine sociale.

Nel 1959 met­tono in scena The Con­nec­tion, la gior­nata di un eroi­no­mane, poi The Brig, la vio­lenza tra i mari­nes. E Anti­gone sul valore della legge. Fini­scono sotto pro­cesso e si difen­dono da soli.

Anche per que­sto par­lare del Living signi­fica par­lare di tutta la con­tro­cul­tura, The Con­nec­tion diventa un film di un’altra sublime pro­vo­ca­trice, Shir­ley Clark e così The Brig diretto da Jonas Mekas men­tre Ber­to­lucci li vuole nel suo epi­so­dio di Amore e rab­bia, Ago­nia. Nell’85 Beck muore, Malina con­ti­nua il suo lavoro, e le sue battaglie.

Nell’88 sposa Hanon Rez­ni­kov, anche lui pre­senza sto­rica del gruppo. I loro spet­ta­coli cri­ti­cano la guerra del golfo, le spe­cu­la­zioni a Wall Street, Malina con­ti­nua a essere nel tempo che vive, luci­da­mente cri­tica e bat­ta­gliera, paci­fi­sta e rivo­lu­zio­na­ria. Fino alla fine.


(il manifesto, 11 aprile 2015)

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