di Adriano Botta
Non fu solo la prima donna a diventare ministro, ma soprattutto una grande artefice del welfare italiano. Cercò di fare luce sula P2 e anche per questo poi fu emarginata. Aveva tutte le doti per diventare presidente, ma quando ci fu la possibilità il centrosinistra non ebbe il coraggio di mandarla al Quirinale e le preferì Napolitano
Ai più giovani il suo nome dice poco o nulla. Del resto aveva lasciato la politica di palazzo – e la capitale, Roma – da più di vent’anni, e di sua volontà. “Rara avis”, in un panorama politico di ministri e parlamentari che spesso restano attaccati alla poltrona finchè possono. Ma lei è sempre stata di pasta diversa: e così era tornata nelle sue terre, il trevigiano, dove finché ne ha avuta la forza ha anche coltivato l’orto.
Peccato che i ragazzi la conoscano poco, Tina Anselmi, morta a quasi 90 anni a Castelfranco Veneto, dov’era nata. Peccato perché è stata una delle figuri migliori della Prima repubblica.
Ancora adolescente, nel 1944 partì con i partigiani (nome di battaglia “Gabriella”), prima come staffetta poi al Comando regionale veneto del Corpo Volontari della Libertà.
A Liberazione avvenuta divenne maestra elementare, entrando in politica – da cattolica di sinistra – attraverso l’attivismo sindacale.
E nella Dc degli anni Cinquanta- Sessanta, contenitore di tante anime, si fece a poco a poco strada, con la sua determinazione morale e accanto al suo mentore politico, Aldo Moro.
A Chiara Valentini, che l’ha intervistata dieci anni fa per l’Espresso in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (“Storia di una passione politica”, scritta con Anna Vinci, Sperling & Kupfer), Anselmi spiegava che di Moro ricordava soprattutto «la severità intellettuale».
Raccontava Anselmi: «Fra noi non c’era confidenza. L’avevo visto la sera prima che lo rapissero e forse per la prima volta si era lasciato andare. “Pochi si rendono conto che l’Italia è sull’orlo di un abisso”, mi aveva detto guardandomi negli occhi. Non si può dire che non avesse ragione. Non ho nessun dubbio che se non lo avessero ucciso la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Sono convinta oggi più di ieri che il suo è stato un assassinio politico. Moro è stato ucciso perché non potesse più influire sul futuro del nostro paese. In quegli anni le cose stavano cambiando. Si è voluto troncare il cambiamento. Certo, non ho prove da esibire in tribunale, ma indizi e fatti che riguardano la sua prigionia e anche quel che è successo dopo. Si è potuto capire da parecchie cose che Moro doveva morire. In quei giorni è cambiata la storia d’Italia, è cominciato un declino che ci ha portato alla situazione attuale».
All’ombra di Moro, Anslemi fu la prima donna a diventare ministro, nel governo di unità nazionale sostenuto (con l’astensione) anche dal Pci, anno 1976. Andò al lavoro e alla previdenza sociale, dove si impegnò per garantire la parità di genere e la concertazione con i sindacati.
Più tardi avrebbe trasferito i suoi principi riformisti al ministero della sanità, contribuendo in modo determinante a realizzare il Servizio sanitario nazionale – pubblico e universale – del quale ancora oggi godiamo. Un pezzo di welfare che spesso diamo per scontato, e che invece non esiste – con le garanzie italiane – nella maggior parte dei Paesi del mondo.
Nel 1981 Nilde Iotti, allora presidente della Camera, le chiese di presiedere la commisssione di inchiesta sulla P2.
Ancora dall’intervista all’Espresso: «Iotti mi chiamò e mi disse: “Tutti mi dicono che sei l’unica su cui non ci sono ombre, non puoi dirmi di no”. “Non sono un magistrato, forse non ce la potrò fare”, avevo obiettato. Ma la Iotti sapeva convincerti. Avevamo molto in comune, venivamo dalla Resistenza, credevamo nelle istituzioni, avevamo la stessa origine cattolica. In quella commissione abbiamo fatto tutto quel che potevamo. Nell’elenco di Gelli c’era buona parte di quelli che contavano, uno spaccato tremendo del paese. Ho avuto pressioni, minacce, denunce, sette chili di tritolo davanti a casa, era una vita impossibile. Ma c’era anche chi ci aiutava ad andare avanti, come il presidente Pertini, che ha giocato un ruolo molto maggiore di quel che si crede. Anche Wojtyla mi aveva incoraggiato. Una volta che ero a San Pietro il papa mi aveva mandato a chiamare. “Forza, forza”, mi aveva detto battendomi con la mano sulla spalla. Conservo la foto di quell’incontro. Quello che mi fa male è che molti uomini della P2 siano passati indenni da quegli anni. Basti ricordare Berlusconi, tessera numero 1.816».
Lasciata la politica attiva e ogni carica pubblica, Anselmi è stata considerata nei decenni successivi una “riserva della Repubblica”, tanto che il suo nome è circolato a più riprese per il Quirinale. In realtà, al netto degli encomi pubblici, a Roma aveva ancora troppi nemici per poter diventare davvero presidente. E i suoi avversari non erano soltanto nella destra di Berlusconi, della quale è stata per un ventennio acerrima avversaria.
Nonostante questo, ancora nel 2006 (scaduto Ciampi), diverse associazioni di base proposero di candidarla al Quirinale.
Il centrosinistra, come noto, le preferì Napolitano.
(L’Espresso, 1 novembre 2016)