di Alessandra Pigliaru
Ritratti. Dalla biopolitica ad Antigone fino alla lezione di Simone Weil, una pensatrice tagliente e rara. A dieci anni dalla scomparsa della filosofa e femminista napoletana
«Noi oggi chiamiamo all’interezza di un corpo frammenti di inaddomesticato, luoghi guerrieri del presente, del mito, della storia, dell’affabulare». Era il 1987 quando Angela Putino rifletteva su questi temi, tratti da Cosmo – contenuto in Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia (collana di Via Dogana). Filosofa, femminista, pensatrice tra le più affascinanti e taglienti che il Novecento italiano ci abbia regalato, scompariva il 16 gennaio di dieci anni fa all’età di 61 anni.
Fattezze minute, pensiero capace di alzare il cielo. Piccola, eppure con occhi spalancati che sostenevano una complessità di visione e di ragionamento che lasciava strabiliate. Chi l’ha conosciuta e amata potrà confermare, chi la vuole vedere «in presenza» anche oggi può farlo grazie al documentario di Nadia Pizzuti, Amica nostra Angela (2012) che contiene diversi video e testimonianze. Tratteggiano una comunità intera, quella del femminismo che si andava costruendo a Napoli, punto di radicamento politico e di contatto con altre realtà sparse nel territorio nazionale. Dal collettivo Transizione al Virginia Woolf e alla comunità di Diotima (di quest’ultima ha fatto parte per diversi anni), le relazioni di Angela Putino erano molteplici. Lucia Mastrodomenico, stella polare di pratiche e amicizia politica (muore due settimane prima di lei) con cui dà vita alla rivista adateoriafemminista, Giovanna Borrello, Alessandra Bocchetti, Lina Mangiacapre, Luisa Muraro e altre ancora.
Il desiderio, era chiaro già da allora, «è una condizione di necessità, forgia gli strumenti». In questo contesto il punto di leva è proprio l’inaddomesticato, il partire da sé, il punto di non tenuta per una donna che la trasporta da una condizione di «estraneità» al suo «essere straniera».
Che cosa ne è dei corpi sessuati, come si acceda alla funzione guerriera, perché sia importante riferirsi alle figure del mito (quando sono parlanti, come Antigone) e quale spazio abbia l’amicizia e la relazione tra donne sono, uno per uno, gli elementi con cui Angela Putino ha contaminato irreversibilmente il pensiero della differenza sessuale italiano. Essendone anzitutto una esigente e a tratti scomoda critica là dove non sentiva corrispondenza tra teoria e materialità delle vite, in quegli interstizi per lei opachi che rimuovevano prima di tutto i corpi e ciò a cui venivano sovente sottoposti.
Alla fine degli anni Novanta nasce intorno a questo nucleo di intendimenti il volume Amiche mie isteriche (Cronopio, 1998) che non si capirebbe a pieno se non si considerasse interno almeno a una delle due traiettorie principali già ampiamente frequentate da Putino, la biopolitica. Nel 2011, i saggi dedicati all’argomento trovano finalmente una sistemazione grazie al paziente lavoro di Tristana Dini.
I corpi di mezzo (edito da ombre corte) raccoglie dieci saggi brevi tutti già apparsi in riviste o collettanee, tranne uno del tutto inedito, che coprono un arco temporale di tredici anni (dal 1994 al 2007). Quando nei primi anni Novanta Giorgio Agamben, Antonio Negri e Roberto Esposito intervenivano nella discussione pubblica italiana a proposito del bio-potere, già allora il posizionamento di Putino era collocato in maniera magistrale fuori dal terreno della filosofia politica per riconoscere, nella distinzione tra bio-potere e sovranità, il fulcro vero e dolente della faccenda, rubricabile – nella unificazione dei due poteri – nel modo mimetico maschile-patriarcale.
È interno a questa disseminazione – teoricamente pionieristica e al contempo scientificamente rigorosa – l’accostamento al pamphlet Amiche mie isteriche, che ha decretato tutta la forza del suo essere fuori dai blocchi identitari, mettendo in discussione lo stesso alveo teorico-politico in cui si riconosceva e con cui non ha mai smesso di porsi dialetticamente a confronto. Nell’Arte di polemizzare tra donne (Sottosopra blu, giugno 1987) spiegava bene cosa fosse il «far guerra» nelle comuni e reciproche ferite. Docente di bioetica e filosofia del linguaggio e della scienza all’università di Salerno, maestra di libertà femminile, Angela Putino ha consegnato pagine di una densità formidabile in cui le incursioni transdisciplinari rappresentano l’ossatura danzante di un pensiero amoroso che ha interrogato l’inaudito. L’articolazione del suo lavoro può essere percorsa in Esercizi di composizione per Angela Putino (Liguori, 2010) a cura di Stefania Tarantino e Giovanna Borrello – ritratto filosofico e politico cruciale.
Lunghe e appassionate sono anche le riflessioni contenute in Simone Weil. Un’intima estraneità (Città aperta, 2006), testo inaggirabile in cui Putino conduce una delle sue analisi più alte e originali, allargando il lavoro che aveva già dedicato alla filosofa francese nel 1997 (Simone Weil e la passione di Dio) e aggiungendo alla discussione degli studi weiliani il passaggio sulla teoria del matematico Georg Cantor sugli infiniti in atto. Putino si aggancia a un episodio della biografia di Weil che, nel 1937, aveva partecipato a un incontro sul tema.
La filosofa napoletana ci conduce in una rilettura cantoriana del «funzionamento» della differenza sessuale in relazione a Simone Weil; questo il «retroterra» per comprendere come l’abietto e la verità stiano l’uno accanto all’altra camminando dalla stessa parte. In quel silenzio, frutto di uno scacco linguistico, si sgrana un «fuori», un vuoto che non chiede di essere colmato e che si apre al «tu» della relazione. Solo in questo modo la «sventura», intesa impropriamente come sola miseria simbolica che inchioda a una impossibilità di agire, cambia di segno. Quel «resto», che è lo stesso abietto – termine che prevede non corpi anonimi bensì l’esposizione stessa della carne intesa come nuda vita – è la possibilità infinita della differenza femminile di essere estranea alla conta pur essendo la condizione stessa affinché quella conta possa darsi. È un fuori che bisogna continuare a fare esistere, pensa Putino, perché possa moltiplicarsi – come accade negli infiniti cantoriani.
Sono trascorsi dieci anni e sembra ancora di vedere la sua figuretta inerpicata nella collina sopra Mergellina, insieme ai suoi gatti. Nel frattempo ci ha anche insegnato a pensare. Pensare e sentire l’altra. E immaginare, «nella curvatura del reale», la festa che è stata, e può essere ancora, il femminismo.
La rivista adateoriafemminista diventa un libro
La rivista, nata nel 2006 grazie ad Angela Putino e Lucia Mastrodomenico, è un notevole laboratorio di pratiche. Questo perché attorno alla redazione sono cresciute generazioni politiche di donne che hanno lavorato alacremente e in relazione tra loro. Ora la rivista, consultabile su web, diventerà in febbraio un volume cartaceo che sarà utile avere e consultare. Comprenderà tutti i numeri fino a ora pubblicati, insieme all’ultimo editoriale del 2016 «Il mondo salvato dalle ragazzine» e si intitolerà «La teoria non è un ombrello. Dieci anni di adateoriafemminista (2006-2016)», a cura di Stefania Tarantino, Tristana Dini, Nadia Nappo, Lina Cascella (Orthotes editrice).
(il manifesto, 11 gennaio 2017)