20 Ottobre 2013
Alias

Anna Banti, biografia e storia di uno stile

di Margherita Ghilardi

Un sottoscala o una soffitta? Una cantina? Un ripostiglio? Chissà dove vanno a finire le scrittrici dimenticate, si chiedeva una ventina di anni fa Luigi Baldacci, molto lodate in vita ma presto sgombrate dai piani alti della storia letteraria, spazzate via nelle antologie e nei bilanci definitivi della critica. Per scrivere di quell’ingiustizia a lui era venuto in mente un luogo più insanguinato che polveroso, lo stanzino di Barbablù con le mogli sgozzate appese alle pareti. L’immagine è truculenta ma efficace, a scavarla nella memoria, quasi un chiasmo della fantasia, ha forse contribuito il «grosso sangue» di Oloferne, la «carneficina tessuta rivo per rivo» da Artemisia sulla sua tela più famosa e tra le pagine del più famoso libro di Anna Banti: perché a Anna Banti l’articolo di Baldacci dedicato. Profetico, se la scrittrice ricordata spesso da Dacia Maraini come una delle sue «cinque madri» letterarie, insieme a Elsa Morante e Lalla Romano e Anna Maria Ortese e Natalia Ginzburg, in quello stanzino ci è rimasta chiusa più o meno fino a oggi. Tanto che il volume di Romanzi e racconti con cui adesso viene accolta nei «Meridiani» Mondadori (pp. CLXIX-1789, € 65,00), riconquistando così il posto assoluto che le spetta nel nostro Novecento, sembra rivelare le stesse indelebili tracce di sangue impresse sulla piccola chiave della fiaba. Restituzione di un autore ai suoi lettori ma soprattutto proposta di interpretazione – «la forma antologica l’abbiamo sempre conosciuta in funzione d’intendimenti critici» chiosava del resto Anna Banti scrivendo nel 1952 di testi ottocenteschi –, il libro obbedisce a un’intenzione perseguita con coerenza: la scelta si giustifica nel bellissimo saggio introduttivo firmato come l’intero progetto editoriale da Fausta Garavini. L’idea che lo sostiene è suggestiva, affonda la sua radice più segreta e trova una legittimazione vera nel sangue di Oloferne dipinto da Artemisia, se in quel sangue Anna Banti ha riconosciuto per la sua protagonista il ricordo sofferto dello stupro, esposto sulla tela «con mezzi che la mente avrebbe dovuto difendere e mantenere inviolati». Così, da scrittrice a scrittrice, Garavini attraversa la narrativa di Anna Banti inseguendo la scia sanguinosa di una ferita ancora aperta, cerca nella trama l’impronta di un’ossessione appena camuffata: ogni romanzo, sia di manifesta ispirazione autobiografica come Un grido lacerante o come invece La camicia bruciata di rigorosa ambientazione storica, replica in variazioni anche sorprendenti la medesima, personale infelicità nel matrimonio. Racconta un’avvelenata solitudine, la gelosia e l’esclusione in cerca di riscatto. Lucia Lopresti, questo il nome anagrafico, Roberto Longhi lo aveva conosciuto all’ultimo anno di liceo: lei studentessa, lui giovanissimo insegnante di storia dell’arte. Si sposeranno nel 1924, ma per la moglie Longhi resterà nel tempo il Maestro e l’Assente. Prima, storica dell’arte; poi grande narratrice, saggista, critico militante e direttore di «Paragone» a fianco del marito, sulla sua pagina continuerà ad allungarsi l’ombra sfuggente di lui, «il lampo di uno sguardo aquilino» desiderato e irraggiungibile. Garavini spoglia Anna Banti della sua regale leggenda, trapunta di «maledetti equivoci», per restituirle dolore e lacrime, un corpo che palpita nella luce in apparenza gelata della sua scrittura. «Chi sono io?» è la domanda che si ripete uguale nelle due opere collocate agli estremi della parabola bantiana, e del volume: rappresentazioni eroiche di una stessa eccezione femminile, mitologie famigliari o narcisistiche proiezioni di un destino, gli altri cinque romanzi e i quindici racconti che vi sono accolti si allacciano a formare un’oroscopica risposta. «Da piccola avevo la mania di dire la verità – soltanto volevo che tutti credessero ciecamente alle favole che raccontavo», scrive a Longhi e ha solo vent’anni. La sua narrativa rovescia finzione e realtà come fossero guanti spaiati, gioca moltiplicando gli abbagli in uno specchio, costruisce sosia, controfigure, doppi. Nasconde ciò che ha perduto o che non trova. L’ampia Cronologia che stemperandone la natura anche polemica Garavini giustappone al saggio introduttivo, allestita con materiali inediti e in qualche caso finora irreperibili perché ritenuti distrutti dall’autrice insieme a gran parte del suo archivio, ripete come in un calco lo stesso profilo di accorata solitudine, timida fierezza, passione mai veramente corrisposta. Ed è un peccato, se in quella privata esperienza rimane chiuso l’archetipo di ogni narrazione, che il ricco percorso biografico risulti così sbilanciato in avanti e schiacciato sulla maturità. Infanzia e adolescenza di Anna Banti, tradite oltretutto da qualche inesattezza, sfumano dentro una fiabesca nebulosa. Non però la vicenda editoriale e la fortuna dei suoi libri, ricostruite grazie a una folta documentazione, perfino con imprevedibili sorprese malgrado l’endemica assenza di abbozzi e redazioni manoscritte, nelle Notizie sui testi curate da Laura Desideri, cui si deve anche la preziosa, esaustiva Bibliografia. «Questa è vera religione, concludeva: restituire al genio dei morti il dovuto riconoscimento», riflette per l’autrice in uno degli ultimi racconti del volume (il caravaggesco Tela e cenere) la giovane badessa del monastero napoletano di Santa Chiara. È un’avventura e una festa passeggiare in questo «Meridiano», abitarci dentro, seguire attraverso la sua lunga teoria di stanze l’incedere di un talento fastoso, lussureggiante, eccentrico. Eppure dopo un po’ lo spazio si restringe, tra le pagine non filtra un soffio d’aria. Né un suono né un brusio arriva dall’esterno. La storia, intesa come storia non di una vita ma di uno stile, scorre al di là delle finestre sigillate. «Una volta chiesi a Cecchi: “Cecchi, mi dica, in tutto questo magma di gente che scrive – i neorealisti, gli onirici, i surreali, gli informali – che cosa rappresento io? Lui scosse la testa sorridendo. Forse non sapeva o non voleva dirmelo». A quarant’anni di distanza l’opera inquieta di Anna Banti aspetta ancora lo sfondo su cui riposare.  Si perdono senza una guida i crocevia in cui la sua ricerca espressiva ha incontrato sentieri diversi, le idiosincrasie e i reciproci influssi, gli scambi decisivi. Sfuggono come sabbia dispersa dal vento le sue vistose preoccupazioni  strutturali, quelle spericolate contaminazioni tentate sulla pagina tra classicità e avanguardia, l’uso disinvolto della tradizione. Malgrado l’apparente, intenzionale anacronia, ogni parola di Anna Banti respira in sintonia con la sua epoca. La lettura altrimenti diventa claustrofobica. Per capire la difficile conquista di quella che Cesare Garboli ha definito «una scrittura nervosa, intima, da fioretto», di uno stile divenuto secondo Pier Paolo Pasolini sempre meno «duro, ribattuto, severo», non sarebbe stato inutile esibire le indicazioni fornite dall’analisi dei documenti ritrovati. Perché non illustrare almeno le direzioni principali delle varianti offerte dalle attestazioni a stampa? Il passaggio del primo racconto a un capitolo di Itinerario di Paolina rivela all’altezza dell’esordio un’inclinazione inattesa per la sovrabbondanza metaforica. E perché in presenza di redazioni plurime in volume adottare qui la più arretrata rifiutando d’ufficio la ne varietur? Vanificata dalle opzioni testuali, la volontà dell’autore è contraddetta anche dalla scelta ingarbugliata di sottrarre quasi tutti i racconti alla compagine delle raccolte originali, mescolandoli ai romanzi in un ordine retroattivamente cronologico che ne altera, poiché artificioso, la prospettiva autentica nel tempo. E ancora perché, se Storia e autobiografia sono la stessa cosa, rinunciare a una parziale descrizione delle fonti? Come per le seicentesche carte d’archivio utilizzate in Artemisia, la potenza della fantasia inventiva di Anna Banti, la sua identificazione con le istanze anche morali del suo protagonista, acquisterebbe profondità e risalto nel confronto tra il grande affresco dipinto in Noi credevamo e i memoriali relitti da Domenico Lopresti, il suo nonno patriota e galeotto nelle carceri borboniche. Un’occasione mancata? Lei, se è vero quello che disse di Berthe Morisot, del «futuro delle proprie opere non si curò mai». Noi ci guadagneremo volentieri l’incanto e la felicità della lettura  con una lunga apnea. Ne saremo a sufficienza ripagati.

(Alias – inserto del Manifesto, 20-10-2013)

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