3 Ottobre 2014
il manifesto

Annie Ernaux, il lessico che tradisce uno stile di classe

di Alessandra Pigliaru

 

Volevo dire, scri­vere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a que­sta distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma par­ti­co­lare, che non ha nome. Come dell’amore sepa­rato». Su quell’ipotesi di nar­ra­zione, Annie Ernaux ha riflet­tuto parec­chio con­clu­dendo che le sarebbe stato impos­si­bile rife­rirsi a una trama di inven­zione. Ha dun­que pre­fe­rito una com­po­si­zione in prima per­sona, veri­tiera e dichia­ra­ta­mente auto­bio­gra­fica. La place (Gal­li­mard), ora tra­dotto da Lorenzo Flabbi con il titolo Il posto (L’orma edi­tore, pp. 120, euro 10) è un potente libro (già recen­sito da Enzo di Mauro in Alias del 30/3/2014) che per Ernaux rap­pre­senta l’altra metà di una trama d’infanzia comin­ciata anni prima, e pun­tel­lata anche in seguito, inter­ro­gando la pro­pria rela­zione con la madre.

Siamo in un pic­colo pae­sino nel nord della Fran­cia. Con un senso di ascolto verso la vul­ne­ra­bi­lità umana e, al con­tempo, con­sa­pe­vole del suo dive­nire donna desi­de­rante, Ernaux sistema lo strappo defi­ni­tivo della morte del padre e indaga lo iato che ogni scom­parsa porta con sé. Distanza sgra­nata per la scrit­trice in un senso pre­ciso e mate­riale di classe. Per la figlia, invece, in un mesco­la­mento del tempo di cui le sem­bra di smar­rire la trac­cia. Con­ta­dino, ope­raio e infine gestore di un pic­colo nego­zio, il pro­filo che Ernaux trat­teg­gia di suo padre è ful­mi­nante, distil­lato come i ricordi elen­cati e ade­renti all’esperienza. L’incedere della sto­ria inchioda così a una incon­fon­di­bile e dolente para­bola capace di con­se­gnare il senso di un con­flitto, in cui lo scam­bio sin­go­lare e pri­vato com­pare nello sfondo di una mate­ria­lità degli affetti e delle vite senza pos­si­bi­lità di sot­tra­zione alcuna.

Ha scritto «Il posto» con una com­pe­tenza disar­mante sulla per­dita, illu­mi­nata con atten­zione attra­verso lo spae­sa­mento e il con­te­sto sociale e sto­rico entro cui suc­cede di morire. Su cosa si è concentrata?

Quello che mi pre­meva for­te­mente era anzi­tutto dare conto del rituale che pren­deva avvio dopo la scom­parsa di un pro­prio caro per­ché era molto legato alla classe sociale di appar­te­nenza, nel mio caso popo­lare. La forma della con­di­vi­sione e dello stare insieme non avve­ni­vano allo stesso modo nelle fami­glie bor­ghesi. Ci si potrebbe sof­fer­mare su diversi det­ta­gli. Per esem­pio il pasto che segue l’inumazione, ben­ché abbia delle radici molto anti­che, si è man­te­nuto nelle classi popo­lari e si è abban­do­nato nelle classi borghesi.

Il libro si apre sul dop­pio regi­stro di una fine e di un ini­zio. La prima è quella di un padre e il secondo è invece legato al con­corso che in que­gli stessi mesi le capita di supe­rare per l’insegnamento. Suc­ces­si­va­mente a quel taglio, anti­ci­pato per fasi negli anni, che lei chiama «distanza di classe», scrive: «ora sono dav­vero una bor­ghese, è troppo tardi» con­giun­gen­dolo tut­ta­via ad un «ran­core» verso il lin­guag­gio paterno. In che senso?

La fonte del ran­core, della rab­bia, più che dalla man­canza dei soldi pas­sava pro­prio per il lin­guag­gio. In par­ti­co­lare capi­tava che mio padre uti­liz­zasse il dia­letto con delle forme gram­ma­ti­cali non cor­rette. Invece di Noi era­vamo poteva dire Io era­vamo. Come scrivo nel libro, io lo cor­reg­gevo e per me era insop­pri­mi­bile farlo per­ché l’avevo impa­rato a scuola. Così mi tro­vavo a vivere in una terra di mezzo, tra quello che avevo ere­di­tato e ciò che invece impa­ravo a scuola. È stato motivo di grande fri­zione fra noi e anche di dolore. Non era una sosti­tu­zione di auto­rità tra ciò che fin lì avevo cono­sciuto e ciò che la scuola mi offriva, piut­to­sto una legit­ti­ma­zione ine­dita, una sco­perta che ha cau­sato smar­ri­mento ma anche libertà. Forse è ciò che accade a tutti i tran­sfuga da un punto di vista sociale, o forse sarebbe meglio dire a tutti i trans-classe, quest’ultimo un con­cetto più neu­trale che non ha l’accezione del tra­di­mento ma pro­prio del pas­sag­gio inteso come lacerazione.

In que­sto suo libro, a dif­fe­renza di altri suoi, la rela­zione con sua madre appare poco ma in modo appro­priato legata alla lin­gua e alla com­pren­sione che le ha mostrato del suo per­corso. Cosa ha signi­fi­cato sua madre nella sua formazione?

La figura di mia madre è stata cer­ta­mente la più impor­tante di tutte nella mia for­ma­zione. Nell’economia della cop­pia erano le sue scelte quelle che veni­vano appro­vate e appli­cate. Del resto, mia madre come donna è sem­pre stata pre­sente sia nei miei libri che nella mia stessa idea del dive­nire donna. Non posso pen­sare alla mia fami­glia come patriar­cale pro­prio gra­zie al rilievo che la posi­zione di mia madre ha assunto. Una forza, un entu­sia­smo e un orgo­glio che ancora mi accom­pa­gnano. Penso al libro che ho scritto subito dopo la sua morte, Une femme (Gal­li­mard, 1988, in ita­liano Una vita di donna, Guanda, 1988), e poi a quello che pre­cede Il posto, La Femme gelée, (Gal­li­mard, 1981). Qui descrivo quanto mia madre mi abbia soste­nuta e quanto sia stata felice per me quando le ho con­fi­dato la mia inten­zione di comin­ciare a scri­vere. Da parte di mio padre c’era invece paura e al con­tempo desi­de­rio che io non otte­nessi buoni risul­tati sco­la­stici. O almeno che io avessi qual­che defail­lance per­ché lui, in realtà, il pas­sag­gio sociale che io stavo com­piendo non lo desiderava.

Anche que­sto fa parte della frat­tura di classe di cui lei parla? C’è forse stato da parte sua un senso di colpa, sep­pure ambivalente?

Pro­prio così, un senso di colpa ambi­va­lente. Forse, mi dico, ne fossi stata del tutto priva non avrei scritto Il posto. In gene­rale, scrivo pro­prio a par­tire dalla segna­la­zione di quella frat­tura di classe. Per­ché la mia è una scrit­tura poli­tica e ogni mio libro è il modo che ho tro­vato per darmi la libertà di parola con una voce che rac­conti la poli­tica che mi interessa.

Lei parla della sua scrit­tura anche come «epica del sé». In Ita­lia è stato recen­te­mente pub­bli­cato il volume col­let­ta­neo «Epi­che» (Iaco­belli, a cura di Paola Bono e Bia Sara­sini, «il mani­fe­sto» del 28 ago­sto) in cui, tra le altre cose, com­pare una dif­fe­renza tra eroine ed epi­che ed è aperto da una domanda che vor­rei rivol­gerle: esi­ste un’epica femminile?

In Fran­cia una que­stione simile non è ancora stata posta. Sarebbe inte­res­sante pas­sare in ras­se­gna la sto­ria della let­te­ra­tura ma dal mio punto di avvi­sta­mento, di cui il lavoro di scrit­tura fa parte, il mio Les années (Gal­li­mard) cor­ri­sponde per esem­pio a que­sto discorso. Mi viene anche in mente Natha­lie Kuper­man e il suo J’ai ren­voyé Marta (Gal­li­mard) che sarà pre­sto tra­dotto in ita­liano. C’è anche in que­sto caso l’attraversamento della sto­ria da parte di una donna, che mette al cen­tro l’epica del quo­ti­diano e delle con­di­zioni mate­riali di esi­stenza e non è ascri­vi­bile a una clas­si­fi­ca­zione tra­di­zio­nale. In effetti non si tratta di eroine cano­ni­ca­mente intese ma di sto­rie di donne che potreb­bero con­fer­mare l’esistenza di un’epica femminile.

 

(il manifesto, 27 settembre 2014)

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