28 Novembre 2012
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Appello di Aminata Traoré

Appello di Aminata Traoré e altre femministe maliane, contro la strumentalizzazione della violenza contro le donne da parte della comunità internazionale per giustificare l’intervento armato in Mali *

 

Dalla drammatica situazione del Mali, emerge una terribile realtà che si verifica in altri paesi in conflitto: la strumentalizzazione delle violenze fatte alle donne per giustificare l’ingerenza e le guerre per appropriarsi delle ricchezze dei loro paesi.
Le donne africane devono saperlo e farlo sapere
Tanto l’amputazione del Mali dei due terzi del suo territorio e l’imposizione della Sharia alle popolazioni delle regioni occupate sono umanamente inaccettabili, altrettanto moralmente indifendibile e politicamente intollerabile è la strumentalizzazione di questa situazione, tra cui la sorte riservata alle donne. Noi abbiamo su questo, noi donne del Mali, un ruolo storico da giocare, qui e ora, nella difesa dei nostri diritti umani contro tre forme di fondamentalismo: quello religioso tramite l’islam radicale, quello economico tramite il mercato globale, quello politico tramite la democrazia formale, corrotta e corruttrice. Invitiamo tutte/i coloro che, nel nostro paese, in Africa ed altrove, si sentono interpellati dalla nostra liberazione da questi fondamentalismi, a unire le loro voci alle nostre per dire “No” alla guerra per procura che si profila all’orizzonte. Le seguenti argomentazioni giustificano questo rifiuto.

Il diniego della democrazia
La richiesta di schieramento di truppe africane nel Nord del Mali, trasmessa dalla Comunità degli Stati dell’Africa Occdentale (Cedeao) e dall’Unione africana (UA) alle Nazioni unite si basa su una diagnosi deliberatamente ambigua e illegittima. Non poggia su alcun accordo nazionale degno di questo nome, né al vertice né alla base.
Esclude inoltre la pesante responsabilità morale e politica delle nazioni che hanno violato la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza trasformando la protezione della città libica di Bengasi in mandato a rovesciare il regime di Mouammar Gheddafi e a ucciderlo. La coalizione dei separatisti del movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mlna), da Al Qaïda al Maghreb Islamico (Aqmi), e degli alleati che ha vinto un’armata del Mali demotivata e disorganizzata deve egualmente questa vittoria militare agli arsenali derivati dal conflitto libico.
Lo stesso Consiglio di sicurezza andrà ad approvare nei prossimi giorni il piano d’intervento militare che i Capi degli stati africani hanno approvato pretendendo di correggere così le conseguenze di una guerra ingiusta con una guerra altrettanto imposta? Marginalizzata e umiliata nella gestione della crisi libica, l’Unione africana si deve lanciare in questa avventura in Mali senza meditare sugli insegnamenti della caduta del regime di Mouammar Gheddafi? Dove sta la coerenza nella gestione degli affari del continente da parte dei dirigenti africani, che in gran parte s’erano opposti invano all’intervento della Nato in Libia, quando si accordano sulla necessità di un dispiegamento di forze militari in Mali, dalle conseguenze incalcolabili?

L’estrema vulnerabilità delle donne nelle zone di conflitto
Il Gruppo internazionale di crisi giustamente avverte che: “Nel contesto attuale, una offensiva dell’armata del Mali appoggiata dalle forze della Cedeao e/o altre forze ha tutte le possibilità di provocare innanzitutto delle vittime civili nel Nord, di aggravare l’insicurezza e le condizioni economiche e sociali nell’insieme del paese, di radicalizzare le comunità etniche, di favorire l’espressione violenta di tutti i gruppi estremisti e, infine, di trascinare tutta la regione in un conflitto multiforme senza linea di fronte nel Sahara”.
Queste conseguenze assumono una particolare gravità per le donne. La loro vulnerabilità che è su tutte le bocche dovrebbe essere presente in tutti gli spiriti nelle prese di decisione e dissuasiva quando la guerra può essere evitata. Può essere. Deve esserlo nel Mali.
Ricordiamo che i casi di stupro che noi deploriamo nelle zone occupate del nostro paese rischiano di moltiplicarsi con lo spiegamento di parecchie migliaia di soldati. A questo rischio, bisogna aggiungere quello di una prostituzione più o meno mascherata che si sviluppa generalmente nelle zone di grande precarietà e di conseguenza i rischi di propagazione dell’Aids. Il piano d’intervento militare su cui va a orientarsi il Consiglio di sicurezza prevede dei mezzi per mettere in sicurezza le donne e le ragazze del Mali dal rischio di questo tipo di situazione disastrosa?
Allo stesso modo, ricordiamo che sul territorio, nel suo complesso, le sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale al popolo maliano in nome del ritorno a un ordine costituzionale discreditato toccano in modo considerevole i gruppi vulnerabili.
Le donne a causa della divisione sessuale dei compiti si confrontano a livello domestico con l’enorme difficoltà di approvvigionamento delle famiglie in acqua, cibo, energia domestica, medicinali. Questa lotta quotidiana e interminabile per sopravvivere è già in sé una guerra. In queste circostanze di precarietà e vulnerabilità delle popolazioni, e in particolare delle donne, l’opzione militare in preparazione è un rimedio che ha tutte le probabilità d’essere peggiore del male mentre un’alternativa pacifica, che viene dalla società maliana, civile, politica e militare, sarebbe costruttiva.

Le incoerenze della comunità internazionale
Ognuno dei potenti rappresentanti della “comunità internazionale” così come la Cedeao e l’UA hanno pronunciato parole a proposito dei nostri maledetti guai di donne in situazioni di conflitto. (…) Il presidente francese, François Hollande, che gioca il ruolo di capofila nella difesa dell’opzione militare ha sottolineato la sofferenza delle donne, “prime vittime delle violenze di guerra”. E quindi ha dichiarato, il 26 settembre 2012 a New York durante la riunione speciale sul Sahel, in margine alla assemblea generale delle Nazioni unite: “So che può esservi la tentazione di condurre dei negoziati. Negoziare con dei gruppi terroristi? Non può essere questione. Ogni perdita di tempo, ogni processo che andasse per le lunghe, non potrebbe che fare il gioco dei terroristi”.
“Occorre saper terminare una guerra”, sembrano dire i presidenti americano e francese. “La guerra in Afghanistan si è prolungata oltre la missione iniziale. Essa attizza la ribellione così come permette di combatterla. È tempo di metter fine in buon ordine a questo intervento e io ne prendo qui l’impegno”, dichiara François Hollande nel suo discorso d’investitura a presidente.
La Segretaria di stato americana per gli affari esteri, Hillary Clinton, il cui scalo ad Algeri il 29 ottobre aveva in parte per obiettivo quello di convincere il presidente Abdelaziz Bouteflika a unirsi nel campo di guerra, si era rivolta ai capi degli stati africani riuniti ad Addis Abeba in questi termini: “Nella Repubblica democratica del Congo, il proseguire degli atti di violenza contro le donne e le ragazze e le attività dei gruppi armati nella regione orientale del paese, sono per noi un motivo costante di preoccupazione. L’Unione africana e le Nazioni unite non devono risparmiare alcuno sforzo al fine di aiutare la RDC a reagire a queste incessanti crisi di sicurezza”.
L’inziativa del segretario delle Nazioni unite, Ban Ki Moon, intitolata “Uniti per mettere fine alla violenza contro le donne”, lanciata il 25 gennaio 2008, pone una attenzione particolare alle donne dell’Africa occidentale. Era prima delle guerre in Costa d’avorio e in Libia che hanno largamente compromesso la realizzazione degli obiettivi assegnati a questa iniziativa. Noi comprendiamo la sua riserva per quanto riguarda lo spiegamento militare e speriamo che non sostenga il piano d’intervento dei Capi degli Stati della Cedeao. La guerra, ricordiamolo, è una violenza estrema contro le popolazioni civili, fra cui le donne. Essa non può che allontanarci dagli obiettivi di questa iniziativa.
Perché i potenti del mondo che si preoccupano tanto della sorte delle donne africane non ci dicono la verità sulle poste in gioco minerarie, petrolifere e geostrategiche delle guerre?
La presidente della commissione dell’UA, Nkosazana Dlamini-Zuma, da parte sua sottolinea che “è cruciale che le donne contribuiscano e s’impegnino attivamente nella ricerca di una soluzione al conflitto. Le loro voci devono essere ascoltate negli sforzi volti a promuovere e consolidare la democrazia nei loro paesi. A questo scopo, voi potete, senza alcun dubbio, contare sul sostegno dell’UA, così come sul mio impegno personale”. La nomina di una donna per la prima volta a questo posto potrebbe essere un vero fattore di emancipazione politica per le donne e dunque di liberazione del continente, se Nkosazana Dlamini-Zuma accetta di allargare la base del dibattito sulle donne africane integrandovi le poste in gioco globali che ci sono dissimulate.

Il nostro triste status di ostaggi
Il Mali è un paese allo stesso tempo aggredito, umiliato e preso in ostaggio dagli attori politici e istituzionali che non hanno alcun conto da renderci a cominciare dalla Cedeao. Una delle espressioni di questa realtà è l’enorme pressione esercitata su ciò che resta dello Stato del Mali. Il presidente a interim, Dioncounda Traoré, è il primo degli ostaggi maliani. Se egli ha creduto di dover ricordare, il 19 ottobre 2012, durante la riunione del gruppo di sostegno che segue la situazione del nostro paese, che non è un presidente preso in ostaggio, è proprio perché lo è. Altrimenti non l’avrebbe ripetuto in tre riprese, il 21 settembre 2012, alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza del nostro paese che privilegia il dialogo e la concertazione, e richiesto alle Nazioni Unite, tre giorni dopo, un intervento militare internazionale immediato. “Sono consapevole d’essere il presidente di un paese in guerra ma la prima scelta è il dialogo e la negoziazione. La seconda scelta è il dialogo e la negoziazione”, insiste, “la terza scelta sta nel dialogo e nella negoziazione. Noi faremo la guerra se non avremo altra scelta…”, ha dichiarato nel suo discorso alla nazione prima di cambiare parere.
Al di là del presidente provvisorio, noi siamo tutti degli ostaggi prigionieri di un sistema economico e politico non egualitario e ingiusto che eccelle nell’arte di rompere le resistenze a colpi di ricatto sul finanziamento. La soppressione dell’aiuto esterno si traduce quest’anno 2012 in un mancato profitto di 429 miliardi di franchi CFA. La quasi totalità degli investimenti pubblici sono sospesi. La chiusura di numerose imprese è stata occasione di licenziamenti e sospensione tecnica del lavoro per decine di lavoratori mentre il prezzo delle derrate alimentari continua ad ardere. Le più importanti perdite si registrano nei settori delle costruzioni e dei lavori pubblici.

Pace e integrità territoriale
Il turismo, l’artigianato, l’alberghiero e la ristorazione, che subiscono dal 2008 le conseguenze dell’iscrizione del Mali nella lista dei paesi a rischio, sono gravemente colpiti mentre erano risorse di redditi sostanziali per le regioni oggi occupate, in particolare quella di Tombouctou.
Il riferimento allo status d’ostaggio è fatto non per sdrammatizzare la prova insopportabile degli ostaggi europei e delle loro famiglie ma per ricordare l’eguale gravità della situazione di tutti gli esseri umani intrappolati in sistemi di cui non sono personalmente responsabili.
Il problema, tuttavia, è di sapere come agire in modo che il nostro paese ritrovi la sua integrità territoriale e la pace, e che i sei francesi detenuti da Aqmi ritrovino le loro famiglie sani e salvi, senza che queste liberazioni aprano la strada a un intervento militare che metterebbe in pericolo la vita di centinaia di migliaia di abitanti del Nord del Mali che sono già ostaggi. (…)
Noi chiediamo a tutte e tutti coloro che condividono il nostro approccio d’interpellare immediatamente i principali attori della comunità internazionale, per iscritto o attraverso qualunque altra forma espressiva, perorando perché il consiglio di sicurezza non adotti una risoluzione che autorizzi il dispiegamento di migliaia di soldati nel Mali.

Seguono firme, prima firmataria Aminata Traorè

* L’appello in lingua francese è stato diffuso in Italia da marginalia nella traduzione di Giovanna Romualdi.

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