9 Ottobre 2023
#VD3

Autocoscienza ancora – Linda Bertelli & Marta Equi


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Autocoscienza ancora, 1° ottobre 2023


I.

Questo intervento vuole mettere in luce che cosa è stata l’autocoscienza nella pratica politica e nel pensiero di Carla Lonzi e di Rivolta Femminile. Nominiamo Rivolta Femminile come gruppo per entrare subito nella questione, cioè per segnare la natura relazionale e non personalista o intimista dell’autocoscienza. In un momento di grande e felice riscoperta del pensiero lonziano bisogna ricordare e ricordarci che Lonzi è stata fondatrice e animatrice di un progetto comune e collettivo, fatto da tante altre donne, e con loro da tanti altri pensieri, esperienze, desideri e obiettivi politici. In altre parole, Lonzi ha pensato e vissuto in un contesto.

L’autocoscienza femminista, inoltre, non nasce e non si esaurisce, neppure negli anni in cui Rivolta Femminile esiste, con Rivolta Femminile. Non si tratta di cercare un primato (che comunque non sarebbe di Rivolta), ma si tratta di aver cura di non costruire cristallizzazioni e icone, concentrando la nostra attenzione su una singola esperienza, e rendendo minori, o addirittura invisibili, altre, anche molto diverse che pure si sono riconosciute nella pratica dell’autocoscienza femminista. Per questo contributo parleremo esclusivamente dell’autocoscienza femminista per Rivolta, ma, mentre facciamo ciò, ci interessa tenere ben presente che c’è una storia e ci sono voci dentro e fuori Rivolta, incluse quelle con cui Lonzi è stata in profondo disaccordo.

Questo è un testo pensato e scritto in due, e ha il sapore di una felice chiusura di un cerchio. Era il 2017 quando prendemmo per la prima volta parola pubblica insieme su Lonzi, a Livorno, al convegno della Società Italiana delle Letterate e dell’associazione Evelina de Magistris. Fu un momento seminale per il nostro lavoro e per la nostra relazione – significativamente le amiche della Libreria delle donne erano lì con noi. Un momento seminale, di apertura: da quel momento abbiamo lavorato ininterrottamente sul pensiero di Carla; oggi siamo qui avendo finalmente terminato un lungo percorso di ricerca e scrittura su Carla appunto – anche se quel su ci fa sempre problema, perché non ci identifichiamo come specialiste di Lonzi, noi il soggetto lei l’oggetto dell’indagine. Meglio allora dire un percorso con Carla Lonzi, come ha scritto Maria Luisa Boccia qualche anno fa[1]. Con Carla appunto, perché quel lavoro ha attraversato la nostra vita e da lei è stato attraversato. Ci siamo arrese alla lentezza che questo lasciar attraversare ha necessariamente comportato. Questo è stato alla fine un atto di comprensione dell’insegnamento di Lonzi, che tutta la vita porta avanti l’idea che mettere carne al fuoco nelle pagine che si scrivono – l’espressione è sua – non sia questione di stile ma questione politica. «Il giorno in cui capisco qualcosa di me o di te agisco in conseguenza», dice Carla al compagno Pietro Consagra. «Se capisco una cosa e poi ne faccio un’altra mi sento proprio massacrata da me stessa»[2]. Questo, ossia l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica è una delle cose più preziose che l’autocoscienza lonziana ci lascia. Se praticata, l’autocoscienza inevitabilmente porta tanto alla caduta delle definizioni di sé quanto al fallimento relativo alle ingiunzioni di successo, velocità e facilità di comprensione di pensieri complessi a cui siamo tutte sottoposte.

Prima di addentrarci oltre nei significati e nelle implicazioni dell’autocoscienza in Lonzi vorremmo dire sinteticamente come si è data la pratica dell’autocoscienza nel movimento femminista. Diversi testi degli anni del decennio Settanta ci trasmettono, con la vivezza delle parole delle donne che li stavano sperimentando, resoconti sull’importanza di quei momenti – la stessa vivezza che si ritrova nelle parole dell’introduzione di Traudel Sattler. Questo è ad esempio un passo del Sottosopra 4, del 1976: «ogni esperienza prima di divenire acquisizione del gruppo è, per chi ne parla un fatto privato… finché è negata o censurata dal silenzio non può che restare tale, ma nel momento in cui è detta o analizzata criticamente o generalizzata, il legame con la situazione personale si attenua mentre diventa più evidente il suo contenuto politico… ripensare collettivamente la propria storia è di fatto e non solo simbolicamente, un atto di nascita. L’attenzione di altre donne che giudicano e generalizzano è la garanzia che ciò che nasce come modi di esistenza personale non resti tale».[3]

L’autocoscienza è, dunque, una pratica politica. Si è sempre svolta, per Rivolta, in gruppi di sole donne, più spesso piccoli gruppi, fino a svolgersi nel rapporto a due – spesso gli incontri erano registrati, per Lonzi e per Rivolta era pratica comune registrare anche le conversazioni a due, o le conversazioni telefoniche. Questo rivoluziona l’idea di che cosa è possibile chiamare politica, fino dentro alle sue componenti materiali, ovvero gli spazi e i tempi nei quali essa si svolge e il chi se ne fa carico.

La prima presa di coscienza che troviamo negli scritti di Rivolta e di Lonzi è l’imprevisto immesso dal piacere femminile, dalla sessualità clitoridea. A proposito dei soggetti della politica, l’autocoscienza è una pratica politica che rende evidente e che si basa sul carattere necessario del nesso tra corpi e pensiero. Come scrive Boccia: «Carla Lonzi vide bene che non vi può essere un pensiero libero e autonomo di donna, se il corpo femminile resta luogo muto e consenziente del piacere maschile né d’altra parte basterà nominare la presa di distanza dall’uomo, o dotarsi di spazi propri e distinti nei quali pensarsi libere».[4]

Questa pratica ha nei suoi modi, tempi e forme una necessità e un tempo storico: legata a una primissima fase iniziale del movimento ha lasciato poi spazio ad altre modalità analitiche e politiche.

Tuttavia, se la guardiamo attraverso la lente dell’operato del gruppo di Rivolta e di Carla Lonzi che ne ha fatto il centro vivo della propria politica è possibile immaginarla anche slegata da quelle forme che la tratteggiano come evenienza storica conclusa.

Se la pensiamo così, autocoscienza non è più solo una pratica delle origini, codificata e conclusasi come fenomeno storico ma contesto simbolico politico dove hanno le radici almeno due cose preziosissime. La prima, l’emergere di un processo di identificazione e di un rispecchiamento tra donne che si riconoscono come soggetti. Quindi è il modo attraverso cui si è conquista e si pone la coscienza della donna indipendentemente da quella dell’uomo, non come individuo maschio ma come individuo protagonista e detentore della cultura e delle sue manifestazioni. La seconda, la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurata dal femminismo.

II.

Per questo breve testo, abbiamo deciso di entrare nello specifico dell’autocoscienza per Lonzi e per Rivolta Femminile individuandone tre punti. Abbiamo lavorato su questi perché sono gli aspetti che non hanno esaurito la loro carica sul presente non nel senso di un aggiornamento automatico dell’autocoscienza per la contemporaneità, ma in quanto elementi che ritroviamo nel nostro essere nel mondo in modalità più o meno implicite, e anche più o meno fantasmatiche. Ci piacerebbe poter approfondire ancora di più quelle state considerate resurrezioni spettrali dei gruppi di autocoscienza, ovvero, ad esempio, le esperienze di alcuni gruppi di supporto e di aiuto per le donne nell’attuale mondo del lavoro che, di chiara matrice neoliberista, sfruttano, nell’ottica di mercato, il discorso sulla particolare oppressione che ancora oggi le donne sperimentano in quei contesti specifici così come la narrazione ed elaborazione dei loro vissuti rispetto a questo.[5] A queste dinamiche faremo qua soltanto degli accenni molto limitati.

Il primo punto che ci piacerebbe discutere è la capacità che la pratica dell’autocoscienza ha avuto, storicamente, di fare spazio, di aprire due lembi che sembravano aderire l’un l’altro. Questi due lembi sono formati da ciò che una donna, ogni singola donna, è (che corrisponde a ciò che può essere compreso attraverso l’autocoscienza) e ciò che ‘pensa di essere’. Questo ‘pensare di essere’ certamente ha a che fare con la casella[6] che era supposto che occupassimo (e ovviamente questa casella si modifica storicamente, a seconda delle aspettative sociali) ma questo posto preparato per noi è soprattutto interiorizzato (appunto ci pensiamo come donne realizzate oppure ci pensiamo come madri o ci pensiamo come quelle che sostengono, che curano ecc. Ci pensiamo libere, anche. È una forma riflessiva, tutta chiusa in noi, e in ultima istanza individualizzata). E l’aspetto dell’ingiunzione esterna – cioè di qualcuno che ci impone esplicitamente di conformarci a qualcosa – non è certamente l’unica componente, e, in questa parte di mondo che è la parte di mondo di cui Lonzi unicamente parla, non sembra essere neppure quella dominante. Per Lonzi, per il momento in cui lei scrive, questo ‘pensare di essere’ prendeva la forma della donna emancipata. Rivolta femminile la spiega come la donna complementare all’uomo e soprattutto che trova nell’uomo e nella sua cultura (che è la cultura) il fondamento e il modello della sua stessa realizzazione. L’uomo accoglie e celebra la donna in questa sua realizzazione fintantoché questa si conformi a quel modello, modello che non fa che confermare l’uomo e la sua cultura e che non fa che escluderla in quanto soggetto: «L’investitura indetta dall’uomo per riscattarci – sono parole di un testo del 1972 di Rivolta femminile – è una farsa del potere maschile, una farsa tragica come e più di ogni altra colonizzazione. È qui che i gruppi femministi di autocoscienza acquistano la loro vera fisionomia di nuclei che trasformano la spiritualità dell’epoca patriarcale: essi operano per lo scatto a soggetto delle donne che l’una con l’altra si ri-conoscono come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo»[7]. Il riconoscimento di e a un’altra donna (l’aspetto della sessuazione del rapporto di riconoscimento è chiaramente imprescindibile) è la condizione dell’autocoscienza, la relazione è ciò attraverso cui l’autocoscienza è pensabile e agibile. Il diario inizia, a conferma di ciò, con questa scena: «Un’altra donna, clitoridea, mi ha riconosciuta come donna, clitoridea, intanto che io la riconoscevo negli stessi termini. Questo è accaduto nella primavera del 1972. Adesso so chi sono e posso essere coscientemente me stessa […] il riconoscimento, da cui nasce il soggetto, intanto che esprime un altro soggetto in grado di essere riconosciuto a sua volta, è stata l’operazione che ha portato il mio processo al traguardo dell’autocoscienza»[8].

L’autocoscienza ha quindi distinto questi due lembi prima indistinguibili e, così facendo, attraverso questa crepa ha reso possibile la scoperta della donna come soggetto. Li ha separati ma per farli combaciare a un livello più alto. Scrive infatti Lonzi: «E questo chiamo autocoscienza: fare in modo che chi parla prenda coscienza che trovare se stesso è riconoscersi nell’espressione di sé […]. Certo non è facile, spesso è disperante, ma chi ha detto che sarebbe stato facile e non disperante?»[9]. Più avanti torneremo su questa difficoltà che talvolta fa disperare. Qui restiamo sull’idea che trovare se stesso significa potersi riconoscere nell’espressione di sé. Trovare se stesso significa, cioè, riuscire a formulare parole per raccontare la propria storia dalle quali non ci sentiamo estranee o estraniate. Per l’oggi, in questo si misura anche la distanza dalla costante autopromozione di se stessi, che, pur basandosi sulla narrazione del nostro vissuto, non fa che produrre parole alienate e alienanti.

«Adesso mi rendo conto – scrive Lonzi nel diario – che senza autocoscienza non si può affermare niente, neppure la propria storia»[10]. È piuttosto chiaro che l’autocoscienza è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra, come già accennavamo all’inizio, e come scrive anche Traudel nella sua introduzione. Se la pratica dell’autocoscienza è stata spesso identificata con la parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come modo della comprensione autocoscienziale. La comprensione di sé generata in questo scrivere si trasforma in un orientamento che sfocia tanto nella vita quanto di nuovo nella scrittura stessa. La scrittura è quindi un tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza. Da questa prova con la scrittura, può irradiarsi in tutte le opere, siano esse di parola o di altro tipo, per esempio imprese. Nella nostra ricerca sosteniamo per esempio come la casa editrice Scritti di rivolta femminile possa essere letta come un esempio del processo autocoscienziale all’opera, in quanto azione volta a testimoniare il lavoro del gruppo, a dar spazio agli scritti delle donne che ne fanno parte (e non a scritti di donne in senso ampio).

Secondo punto. L’autocoscienza è, nella sua genesi, ripartire da zero avendo smaltito tutte le proposte culturali e i loro miti, è, come accennavamo prima, ‘partire da sé’. Lo dice chiaramente Lonzi nel diario: «Mi accorgo […] che io non posso svolgere la mia autocoscienza se non facendo partire da me tutti i motivi all’origine di essa, non potrei mai accettare di essere la prosecuzione di qualcosa affermato da altre»[11]. Partire da sé nel significato lonziano, in quanto si tratta primariamente di un pensiero in pratica, assume diverse forme e modi di essere detto nel diario. Possiamo tuttavia riconoscere due significati fondamentali, sui quali Lonzi tende ricorsivamente a tornare. Il primo è già in qualche modo stato esplicitato, e cioè che partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è, e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica. Oggi questa accettazione dovrebbe essere analizzata nelle dinamiche profondamente differenti in cui può avvenire, alcune delle quali, se individualizzate e cristallizzate a livello identitario, risultano già ampiamente catturate dai processi di mercato (in particolare massmediatico), finalizzate a un ampliamento della coorte dei consumatori.

Al contrario, per il passo di natura politica inteso da Lonzi, questa accettazione non si identifica in alcun modo con una passività, al contrario significa aver chiaro che non si può che scegliere la strada difficile per stare nel mondo, quella sulla quale Lonzi si dibatte e si ossessiona in molte pagine del diario: esistere cercando di fornire una presa all’accettazione di sé per quello che si è, affinché questo modo sia in grado di agire nel mondo, di costruire pezzi di mondo in comune. Secondo quella triade di esistenza, comprensione e produzione simbolica che menzionavamo già prima.

Un ultimo punto, il terzo, secondo noi significativo che si trova nelle pagine di Lonzi e di Rivolta è il carattere instabile dell’autocoscienza, senza che questo rappresenti un depotenziamento di questa pratica. Vi sono piani diversi sui quali è possibile misurare questa instabilità.

In primo luogo – lo abbiamo già visto – l’autocoscienza appare come una strada difficile, a tratti che fa disperare soprattutto perché, come osserva Lonzi, si ha spesso la verifica che sia una strada che non interessa quasi a nessuno, che è spesso rifiutata e talvolta ridicolizzata. E questo non solo dall’esterno. Questa strada è difficile e non scontata anche nel gruppo che ha scelto di praticarla. Perché – scrive Lonzi – non si instaura da sola. Più di una volta, ancora nel diario, sono espressi i timori che non tutte, nel gruppo, ce la faranno, inclusa soprattutto lei: «Non è per tutte, qualcuna non si sveglia»[12], e poi ancora, riferito a se stessa: «Certo devo farcela, ma è difficile non provare sconforto quando non so se potrò farcela»[13].

In secondo luogo, l’autocoscienza come pratica non mette in salvo dai conflitti all’interno del gruppo che la pratica. Anche in questo senso, dunque, non è un riparo, non è una forma di irenismo, non è stabilità: «Cos’è sbagliato in quello che facciamo? Perché l’autocoscienza non ci salva dalle rotture?»[14], si chiede Lonzi in un momento di grande conflitto con una delle compagne di Rivolta. Infine, un elemento di instabilità di pensiero, che ha anche a che fare con noi oggi, qui, che stiamo parlando dell’autocoscienza: l’autocoscienza come pratica senz’altro produce una mediazione del nostro vissuto, non è qualcosa che deve essere compresa come una forma di immediatezza e di adesione all’esperienza. Tuttavia, appena ci pare di trovare, attraverso l’autocoscienza, un punto fermo teorico, questo dovrebbe anche creare in noi il sospetto che sia una forma di camuffamento, che rende inautentico il processo.

III.

Lonzi non abbandona mai la pratica dell’autocoscienza, la comprende come essenziale per il femminismo, arriva a trasformarla integrandola nella pratica dello scrivere e in quella del far nascere e vivere la casa editrice.

Autocoscienza oggi, allora, alla luce di quanto ci lascia in eredità Lonzi, non significa certamente narrazione intimistica e monologante sul proprio vissuto, tanto più quando questa narrazione diventa merce, come accade in diversi contesti. Nell’autorizzarsi a immaginarla e praticarla ancora, autocoscienza significa rimanere ancorate all’essenziale: la non sostituibilità del lavoro fatto in prima persona, la relazione con le altre che su quel lavoro vigilano, la presenza dei nostri corpi. Ancorate all’essenziale e vigili sul processo che può custodirlo, non disfacendosi mai della difficoltà, ma anzi assumendola come amica e garante in questo percorso. Come effetto di questo essenziale, restano orientanti le parole di Carla: avere la possibilità di esprimere se stessi con parole e gesti che ci fanno riconoscere in quanto andiamo dicendo e facendo – la «piccola verità» di cui parla nel diario.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 9 ottobre 2023)


[1] M. L. Boccia, Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, Roma 2014

[2] C. Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1980, p. 47.

[3] Esistono dei traumi piacevoli? Sottosopra n, 4, 1976, p 63. Su questo testo in relazione all’autocoscienza si veda M. Fraire (a cura di), Lessico Politico delle donne. Milano: Gulliver edizioni, 1978, p 127-128.

[4] M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano, 1990, pp. 9-10.

[5] Su questo aspetto, cfr. C. Rottenberg, The rise of neoliberal feminism, Oxford University Press, Oxford, 2018, trad.it. di F. Martellino, L’ascesa del femminismo neoliberista, ombre corte, Verona, 2020, in particolare pp. 85 e ss.

[6] Cfr. L. Muraro, «Partire da sé e non farsi trovare», in Diotima, La sapienza di partire de sé, Liguori, Napoli, 1996.

[7] Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi (1972), in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1974, p. 144.

[8] C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 5.

[9] C. Lonzi, Mito della proposta culturale, in La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile, Milano, 1978, p. 147.

[10] C. Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, cit., p. 212.

[11] Ivi, p. 55.

[12] Ivi, p. 213.

[13] Ivi, p. 124.

[14] Ivi, p. 720.

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