8 Aprile 2016
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Libertà femminile: a che prezzo?

di Luisa Muraro

Cara Adriana, caro Marco,

mi avete chiesto di leggere e di dire la mia sullo scritto di Michela Murgia, Non chiamatela maternità surrogata, datato 2 febbraio 2016 (n.d.r: lo scritto di Michela Murgia è contenuto nel Dossier “Utero in affitto”).

L’ho letto e devo dire che vi ho trovato molti spunti di riflessione ma anche molta confusione e delle imprecisioni. Ma ho capito poi che c’era un equivoco: lo scritto che mi avete dato non era, come ho creduto, un testo unitario, sebbene abbia un solo titolo, una sola data e un’unica autrice. Si tratta, invece di una raccolta di pensieri, apparsi in rete a puntate, come certi romanzi dell’Ottocento pubblicati sui giornali, dove capitava che un personaggio morto, dopo un paio di puntate tornasse in azione.

Tu, Marco, me lo avevi quasi detto: arriva in fondo, verso la fine è meglio.

In effetti, è importante capire la natura dello scritto della Murgia. Se lo consideriamo un ragionamento d’insieme sulla questione, dice cose giuste e cose sbagliate alla rinfusa. Ma in realtà questo è il testo di una che va in cerca cambiando strada e non soltanto, anche idea, con un percorso a zigzag.

Una prova? Il capitoletto intitolato Il figlio logico e il figlio biologico, che viene a metà, dice: “Non ho detto ancora una sola parola sul bambino, nonostante tutta la questione della GPA ruoti intorno al desiderio di averlo”. Appunto. Ma allora, di che cosa abbiamo discusso finora? E poco più avanti aggiunge: “I problemi, mi pare, sorgono solo quando i genitori intenzionali hanno una percezione mercificata del bambino”. Mi pare??? Solo??? Questo è il punto cruciale di tutta la questione: accettiamo o non accettiamo che le creature umane vengano al mondo seguendo la trafila di un prodotto commerciale? Se rispondiamo sì, cioè se accettiamo la pratica di far fare la gestazione a una terza persona in cambio di soldi, impossibile impedire una percezione mercificata. Al massimo, si potrà minimizzarla.

Vediamo dunque il percorso di Michela Murgia. Comincia parlando della maternità che, oggi giorno, soprattutto grazie al femminismo, è più libera che in passato. D’accordo.

La sua mossa principale, per illustrare questa libertà, consiste nel distinguere la maternità dalla gravidanza. Che il significato della maternità sia indipendente dalla gestazione, sia quindi scorporato dall’impegno fisico della donna, ecco la libertà guadagnata, secondo la Murgia. Inconsapevolmente, lei replica la mossa del pensiero patriarcale (Aristotele): la paternità per lui, la maternità per lei, consiste essenzialmente in un impegno simbolico e morale, separabile dall’impegno del corpo. In entrambi i casi, resta fuori come un avanzo il corpo di una donna svalorizzata.

Segue, nel percorso a zigzag, la giustificazione del contratto commerciale tra gli aspiranti genitori e la donna da loro (o chi per essi) reclutata per la gestazione. La legge italiana, osserva la Murgia, consente a una donna d’interrompere la gravidanza per ragioni economiche. A maggior ragione, conclude, si dovrà consentirle di portare a termine una gravidanza in cambio di soldi di cui ha bisogno.

Qui c’è uno sbaglio. La legge 194/1978 prevede unicamente la tutela della salute psichica e fisica della donna: le sue difficili condizioni economiche entrano in causa solo se sono un motivo del suo star male.

C’è, dietro al testo di legge, un preciso ragionamento giuridico, che io non condivido, ma c’è e ha la sua importanza. C’è dietro anche un (necessario?) compromesso tra comunisti e democristiani per approvare la legge. C’è dietro, fondamentalmente, la preferenza del legislatore per una cultura della tutela della donna. Questa cultura non conosceva il giusto principio femminista secondo cui non si può costringere una donna, sana o malata, ricca o povera, a diventare madre per legge.

Oggi non so come andrebbe. Ma di tutto di ciò non c’è traccia nelle riflessioni della Murgia. Lei, tuttavia, espone un secondo, più solido, argomento (in breve: c’è un dispendio, una fatica, un rischio, da compensare) per giustificare la remunerazione della madre rinunciataria che partorisce per altri.

Il discorso passa poi a sostenere un’altra tesi: ci vuole una legge che regoli la surrogazione, altrimenti vince il mercato con le sue ingiustizie.

La tesi è gracile, gli esempi che l’autrice porta lo sono ancor più: “Prima della legge sul divorzio gli uomini sparivano, abbandonavano le donne e i figli e nessuno poteva obbligarli al mantenimento”. Ma l’obbligo legale del mantenimento esisteva! E sparire, si può sempre.

La legge viene chiamata in causa dalla Murgia non senza motivo, ed è che lei, volendo sostenere la surrogata, si rende ben conto che, se la donna è garantita in tutto, la cosa diventa costosa, alla portata dei soli ricchi. Cerca aiuto nella legge perché ci sia giustizia verso i meno ricchi, da una parte, e dall’altra verso le donne che si prestano alla gestazione surrogata, spinte dal bisogno e poco tutelate. Ma è un dilemma senza via d’uscita, a meno di fantasticare una surrogazione statale che faccia concorrenza a quella privata.

Più o meno a questo punto del discorso, accade qualcosa: per vie difficili da intuire si affaccia il pensiero della rinuncia che la surrogazione impone alla gestante, rinuncia della creatura da lei portata a maturità per nove mesi. Come certo sapete, nella pratica in questione la rinuncia è quasi sempre obbligatoria per contratto. Ah no! insorge la Murgia: la gestante deve “restare libera fino all’ultimo”. In altre parole (mie): lei è la madre e tale resta anche dopo il parto. Immagino che a questo punto tu, Adriana, avrai fatto un bel respiro di sollievo.

Il discorso di Michela Murgia, agli inizi, teneva presente la libertà femminile come autodeterminazione, come affare individuale. Ora spunta un pensiero nuovo (nuovo nel percorso che stiamo seguendo): il pensiero della relazione tra la gestante e la sua creatura. Ed è il punto di svolta.

La svolta non si accorda con cose dette prima (come la definizione della maternità, scorporata dalla gestazione). Ma simili incoerenze sono normali nel farsi interiore di un discorso, le conosciamo anche noi. È come la storia del personaggio che dopo essere morto, ritroviamo vivo e vegeto. Forse, anche Renzo Tramaglino sarà morto un paio di volte nella testa del Manzoni, nel qual caso i promessi sposi sarebbero rimasti tali in eterno; per fortuna invece no.

Tante cose ci sarebbe da dire ancora sul testo di Michela. Il pensiero che si aggira nei meandri di una questione grande e intricata, per trovare un filo e un orientamento, fa un sacco di strada: difficile stargli dietro e spiegare il perché dei suoi movimenti.

Passo così direttamente all’ultima tappa.

Alla fine, l’autrice non auspica più una legge regolatrice della surrogata in difesa dei diritti delle donne e in aiuto degli aspiranti genitori di pochi mezzi economici. Alla fine, ha una fantasia di segno opposto. Immagina che un’amica carissima e desiderosa ma impedita di essere madre, le chieda aiuto, lei glielo darebbe liberamente e ha un solo timore: “non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo”. Explicit.

Cara Adriana e caro Marco, dobbiamo far sapere a Michela che in Italia non esiste una simile legge. Potrebbe però esistere il giorno in cui si pensasse d’introdurre legalmente la surrogazione e fosse necessario regolarla. La surrogazione è un business intorno al quale girano molti soldi e la prima cosa che si pretenderebbe dalla legge sarebbe di eliminare la concorrenza sleale rappresentata dalla gratuità. Come? Basterà dire che non offre le necessarie garanzie mediche.

Vi saluto. Io mi sto interrogando sul modo che ha adottato Michela Murgia per partecipare alla discussione, se sia proficuo o, al contrario, confusionario.

Per finire, il titolo: ci ordina di non chiamare “maternità surrogata” quello che fa la gestante. Paradossalmente, io sarei d’accordo: i surrogati, per me, sono i due che l’hanno assunta. Lei è la madre. Luisa Muraro

Milano, 8 aprile 2015.

 

(www.libreriadelledonne.it, 8/4/2016)

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