3 Settembre 2015
gazettedesfemmes.ca

Casa rifugio per donne in libano: sotto il tetto della tenerezza

di Mélinda Trochu

(traduzione di Silvia Baratella)

Gazette des femmes

https://www.gazettedesfemmes.ca/12379/refuge-pour-femmes-au-liban-sous-le-toit-de-la-tendresse/

 

 

Dopo l’approvazione il 1° aprile 2014 di una legge contro le violenze domestiche, le cose migliorano per le donne in Libano. Ma continuano lo stesso ad accadere dei drammi. Nel cuore di Hamra, un quartiere di Beirut, un appartamento protetto permette alle vittime di sanare le loro ferite. Beit el Hanane («la Casa della Tenerezza») è opera di Jacqueline Hajjar, una svizzero-libanese che si spende interamente perché le sue protette rinascano dalle loro ferite.

 

 

Non c’è dubbio, Jacqueline Hajjar, settantadue anni, è animata da un fuoco sacro. Da trent’anni, questa ex-professoressa di letteratura comparata presta soccorso alle donne in difficoltà. Nel 2008 ha messo in piedi Beit el Hanane: con i suoi risparmi e quelli di alcune amiche ha trasformato un appartamento di Beirut in un nido rispettoso che può accogliere fino a 12 donne e 3 bambini. Ma non sono tutte rose e fiori. Minacciata regolarmente dalle famiglie, Jacqueline non esita a tenergli testa e a nascondere per mesi quelle che vengono a rifugiarsi sotto la sua ala protettrice.

L’accesso all’appartamento è protetto da un videocitofono e da una doppia porta. Perché per poter vivere tranquille le donne di Beit el Hanane si nascondono, dalle loro famiglie ma anche dai vicini. «Ultimamente, le ospiti avevano voluto ballare in sala, ma i vicini ne hanno fatto una tragedia. La gente del quartiere è molto chiusa. Allora abbiamo dovuto allontanarci dalle finestre… – deplora Jacqueline – Ma un commerciante della via mi ha comunque ringraziata. Mi ha detto che notava il cambiamento che avveniva nelle donne tra quando arrivano e quando se ne vanno.»

 

Ricostruirsi per rinascere

 

Sarah, giovane drusa di ventidue anni, è originaria del Metn, una zona a est della capitale. Vive a Beit el Hanane da tre anni e mezzo (con qualche interruzione). Dopo che aveva accusato suo nonno di stupro, la famiglia l’aveva mandata all’ospedale psichiatrico di Deir el Salib, dove ha subito degli elettroshock. «Volevano farmi perdere la memoria – racconta in perfetto inglese – Gli stupri sono durati dai miei quattro anni ai miei nove». Ma è stato solo a quindici anni che ha trovato la forza di parlarne. «Quando ho cominciato ad aprire gli occhi, ho capito che non era normale. Avevo paura di esprimermi, credevo di essere cattiva. La mia famiglia mi ha persino portato da un esorcista, pensando che fossi posseduta. Da noi la legge è di non parlare. Per via della vergogna». Sarah ha subito un’imenoplastica su richiesta dei parenti. Al nonno, rispettatissimo in famiglia, nessuno ha contestato nulla e continua a sostenere che Sarah è pazza.

 

«Quand’è arrivata a Beit era in uno stato terribile – ricorda Jacqueline Hajjar – Non riusciva ad andare da sola neppure in bagno, era completamente prostrata. Ha avuto incubi per tutto un mese». Ora Sarah ha ripreso gli studi, studia marketing. «Jacqueline e Mary [la responsabile del rifugio, che come Jacqueline è affettuosamente soprannominata “mamma” dalle ospiti, NdR] mi stanno davvero sostenendo. Nello stato in cui ero, avevo bisogno d’incoraggiamento, di vedermi bella. Adesso ho fiducia in me stessa», dice.

 

Vedendo il suo immenso sorriso, è difficile immaginare il passato di Sally. A 32 anni, questa madre di due figli è fuggita con loro dal Cairo grazie alla Chiesa copta. «Di recente, mio marito è diventato musulmano per poter prendere un’altra moglie. Mi picchiava e voleva convertirci, me e i bambini. Ho avuto molta paura perché bazzicava degli estremisti e voleva portarci tutti in Arabia Saudita», spiega mentre allatta il suo maschietto di due anni. Il 5 ottobre 2014 è la data della sua liberazione e dell’arrivo in Libano.

«Suo marito a continuato a perseguitarla e lei ha una fifa blu che venga qui a rapirle i bambini», confessa Jacqueline. Ma per Sally Beit el Hanane rappresenta una boccata d’ossigeno. «Sono felice di avere da mangiare, un posto riscaldato. Mio figlio è stato vaccinato e mia figlia va a scuola. Ricevo un sostegno. Non lo avevo mai avuto…». L’egiziana sogna di raggiungere dei parenti in Florida. Del Libano conosce solo il mare a Raouché e i giardini pubblici di Sanayeh. Passa quasi tutto il suo tempo nell’appartamento.

 

La tenerezza è il cuore del trattamento

 

Jacqueline accetta donne di ogni nazionalità o religione nel suo rifugio. «Vogliamo che le donne imparino a vivere in comunità miste. Hanno un po’ troppo la tendenza a restare nel loro gruppetto e a litigare a causa di false concezioni che gli hanno inculcato nel loro ambiente. Non c’è da meravigliarsi che si scontrino all’inizio della permanenza, ma sappiamo che impareranno a volersi bene e ad aiutarsi reciprocamente.»

 

Quando le donne arrivano a Beit el Hanane, grazie al passaparola o a delle associazioni, spesso sono ridotte in uno stato pietoso. Tra pianti, grida e talvolta scoppi di violenza, bisogna avere pazienza ed essere capaci di ascoltarle. Il metodo di Jacqueline e Mary è consolidato: sanno diventare una vera famiglia per le loro protette e restano in contatto con loro dopo che hanno lasciato il rifugio. Cercano di trasmettergli una tenerezza spesso assente dalla vita di queste donne (ab)battute. «Gli altri rifugi libanesi mandano le donne da psichiatri e ginecologi, e le loro responsabili non si lasciano coinvolgere molto nel trattamento. Inoltre limitano il periodo d’accoglienza a un mese. È assolutamente insufficiente!» afferma Jacqueline.

 

A permettere alla casa di accoglienza di sopravvivere sono le sottoscrizioni volontarie. «Quando fai le cose con amore, la gente ti sostiene – prosegue – Avevo bisogno di una ginecologa per tre ospiti, e ne ho trovata una che ci ha fornito gratuitamente i medicinali e non ha preso un soldo per le sue prestazioni.»

 

Carol Mann, ricercatrice franco-britannica e specialista delle problematiche delle donne che vivono in guerra, lo scorso gennaio ha passato dieci giorni a Beit el Hanane per preparare una conferenza sulle donne che si è tenuta a Beirut a inizio giugno. «È un posto davvero commovente e magico. C’è una bella atmosfera, grazie a Jacqueline, e le donne sono solidali tra loro. Ognuna di loro ti sconvolge. Arrivano schiacciate, completamente prive di fiducia. E senza grandi interventi programmati, si riprendono. Con coraggio e dignità, riprendono in considerazione la possibilità di essere le protagoniste della propria storia.»

 

Tra successi e rovesci di fortuna

 

Dopo trentadue donne accompagnate fuori dalla violenza, Beit el Hanane non ha certo bisogno di farsi una reputazione. «Riceviamo spesso delle e-mail di congratulazioni, e delle piccole somme di denaro a mo’ di sostegno. Siamo state contattate da donne siriane, giordane, egiziane ed etiopi grazie alla nostra reputazione», specifica Jacqueline.

 

Ma in Libano è diverso. «La società libanese è combattuta. Riceviamo molti complimenti, ma pochi aiuti concreti. C’è da dire che preferiamo lavorare senza troppa pubblicità: bisogna proteggere le donne, che spesso sono in pericolo di morte.»

 

Si ricorda degli inizi, quando il vicinato le vedeva come fumo negli occhi. «Pensavano che fosse una casa di tolleranza, o di aborti clandestini, e ce ne hanno fatte passare delle belle, rubandoci l’acqua o la corrente elettrica. Per fortuna, hanno finito col cambiare opinione!»

 

Malgrado tutto, sono tempi duri per Beit el Hanane. Nel 2013, c’erano sette persone assunte dal rifugio, dall’aiuto-domestica alla psicologa fino alla cuoca. Quest’anno resta soltanto Mary, che si occupa del rifugio 24 ore su 24. In questo momento, ospita cinque donne e due bambini. Tra loro, un’etiope, una libanese e un’egiziana. Una siriana e un’armena sono andate via da poco.

 

Il centro di tutte le battaglie sono le risorse economiche. «Nell’estate 2014 abbiamo dovuto chiudere per tre mesi perché ci avevano tagliato l’acqua e l’elettricità», sospira Jacqueline. La mancanza di fondi e le difficoltà della situazione di Beirut hanno finito per mettere a dura prova l’implacabile energia della padrona di casa. «Ho pregato Dio, e a settembre abbiamo potuto riprendere l’attività grazie a qualche donazione dei miei amici dal Canada, dagli Stati Uniti e dall’Europa», racconta la fervida credente. Una donazione di 20.000 dollari da parte dell’ambasciata canadese a Beirut ha permesso di comprare nuovi mobili e nuovi letti, perché l’arredamento stava cadendo in rovina: un sostegno insperato nella lotta che Jacqueline Hajjar porta avanti. Instancabilmente.

 

 

(www.libreriadelledonne.it, 3 settembre 2015)

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