di Luisa Muraro
Nella cultura europea e nelle culture da essa influenzate, la storia (e di conseguenza la storiografia, ossia lo scrivere di storia) è molto importante. Questa importanza è già nella lingua, pensiamo al sistema dei tempi verbali nelle lingue indoeuropee con tutte le sfumature e accavallamenti dei riferimenti al passato, dal presente al passato prossimo, all’imperfetto, al passato remoto e, dulcis in fundo, al trapassato prossimo e remoto.
Oltre alle lingue, pensiamo a due grandi tradizioni della cultura europea, la religione cristiana e la filosofia. La religione cristiana è una specie di narrazione storica, dall’inizio a un culmine a una fine futura; si tratta, come noto, di un’eredità della Storia sacra del popolo ebraico, cioè di una cultura del Mediterraneo oltre che europea. La filosofia in Italia viene insegnata come storia della filosofia. Non solo: il più importante sistema filosofico moderno è una filosofia della storia, mi riferisco a Hegel.
Tutto questo per arrivare a dire l’importanza che ha la scrittura della storia e il valore di ogni novità in questo ambito. E dare così la notizia di una novità storiografica, la “pratica della storia vivente”. La proposta viene da un piccolo gruppo di donne capeggiate da Marirì Martinengo (Libreria delle donne di Milano), ed è apparsa sull’ultimo numero della rivista DWF, 2012, 3 (95). Si tratta di una rivista femminista. Il femminismo, restando nell’ambito della cultura occidentale, non fa eccezione a quello che dicevo prima. La storiografia è un capitolo importante della rivoluzione culturale che le femministe hanno avviato in questi decenni. E non è terminata, come dimostra questa nuova proposta, che vorrei brevemente commentare.
Dai frutti che comincia a dare (nel 2005, Marirì Martinengo, La voce del silenzio; ora, questo numero di DWF), è una nuova strada che si apre ed è promettente.
Fra i contributi di questo numero, segnalo quello di Laura Minguzzi, La storia respinta, centrato sulla figura di sua madre, una contadina piegata dalle circostanze che la obbligano a lasciare la campagna, e poi dalle inutili quanto crudeli terapie, quando si ammala. Ed è come rivoltare e trovarsi davanti agli occhi la facciata oscura e dolente della storia dell’Italia contadina che passa all’economia industriale per finire, irrimediabilmente deturpata, nell’era postindustriale. Che però è anche l’era delle donne sempre più istruite che vanno avanti, più degli uomini. Non per questo è una storia happy end e si deve resistere alla tentazione di farla sembrare tale, anche da parte nostra. Viene infatti allo scoperto quello che è stato sepolto per vergogna, egoismo, distrazione, prepotenza, paura, con un accompagnamento di irreparabile sofferenza e di indistruttibili sensi di colpa.
Raccontare (Laura Minguzzi lo sa fare) è una riparazione e un riscatto, dicono. Se si potesse raccontare tutto, fino in fondo, sì, e in questa direzione si cammina, ma chi ci arriva?
Le donne che propongono di lavorare sulla storia vivente, quella che ci ha segnate/i più o meno direttamente, hanno un punto di forza e corrono un pericolo. Come punto di forza hanno la pratica femminista del partire da sé. Che è paragonabile a un metodo: insegna alcuni procedimenti e più ancora insegna a non mettersi fuori dal terreno dell’indagine. Non scappano, il metodo scientifico non lo usano per nascondersi. Corrono però il pericolo di mettersi a immaginare l’esito della ricerca: esito (exitus) è la via d’uscita. Non vanno fuori, dunque, ma vorrebbero stare il più vicino possibile a ciò che dà senso a tutta la faccenda. È naturale. Vogliamo vedere dove va a parare la storia, quella che stiamo ricostruendo ma anche quella che stiamo vivendo in prima persona e quella che riguarda l’umanità intera. È possibile? Io non lo escludo ma attenzione: il dove va a parare la tua ricerca storica, potrà scoprirlo chi ti leggerà, non tu.
Il partire da sé non si risolve con un tornare a coincidere con sé; si risolve piuttosto (quando si risolve) con un ritrovarsi altrove e sorprendentemente mutate.