15 Gennaio 2016

Colonia: conflitti e mediazioni femministe

 

di Sara Gandini e Laura Colombo

Sono ormai tristemente note le violenze ai danni delle donne nella notte di Capodanno in molte città tedesche, con epicentro a Colonia. I commenti che si sono scatenati, specialmente sul web, hanno creato schieramenti, il più macroscopico essendo quello “pro” o “contro” gli immigrati. Nella politica delle donne il pensiero sul conflitto, che è sempre aperto e in elaborazione, richiama la figura della mediazione, che ha a che fare con la parola più che con la legge e apre l’interpretazione del mondo alla possibilità di far passare altro. Un ottimo lavoro di mediazione secondo noi è stato fatto dalla scrittrice marocchina Fatima Mernissi in «L’harem e l’Occidente» e dall’iraniana Azar Nafisi in «Leggere Lolita a Teheran». In questi libri afferriamo che la libertà femminile non è emancipazione, non si misura con i diritti, e ci rendiamo conto che non è un’esclusiva dell’Occidente. È piuttosto un fatto simbolico, che nasce proprio nei territori più difficili, dove le donne fanno invenzioni stupefacenti, che portano vita dove il senso di impotenza maschile porta violenza.

Il nodo politico nella discussione nata con le vicende di Colonia riguarda infatti il presupposto della superiorità culturale dell’occidente, dove le donne sarebbero riuscite a conquistare diritti ed emancipazione (oggi minacciati proprio dagli immigrati), rispetto al mondo arabo, in cui le donne invece sarebbero sottomesse e incapaci di ribellarsi. Lo strabismo di questa postura, che finisce per alimentare lo scontro di civiltà, fa sì che i femminicidi quotidiani di casa nostra non facciano più notizia e spariscano di fronte alle molestie di Colonia.

Non vogliamo dire che le aggressioni di Colonia siano da sottovalutare, sappiamo come le aggressioni maschili di gruppo colpiscano l’immaginario e influenzino il nostro stare nel mondo. Ed è ancora più terribile se si profilano come il terreno di scontro tra i maschi islamici e occidentali. Conosciamo una bambina che, spaventata dalle notizie che sente, chiede spesso alla madre se anche a lei da grande potrà succedere, segno di quanto la violenza sessista incida nel profondo e mini la sicurezza fin da piccole. Noi che siamo adulte conosciamo la rabbia e la paura, che si rinnovano ogni volta che leggiamo di una violenza consumata, così come conosciamo gli effetti della violenza simbolica della cultura patriarcale. Di Colonia ci colpisce la disponibilità di tanti giovani maschi immigrati a prendervi parte. Capiamo la solitudine sessuale di questi giovani uomini, capiamo che il contesto in cui li releghiamo è tremendo (isolamento, abbandono nell’inedia, totale cecità circa le loro capacità umane), ma queste violenze da branco non solo sono terribili per le donne, sono anche irragionevoli. Questo abbandonarsi a comportamenti sconsiderati non fa che confermare i pregiudizi che molti e molte hanno. Aggredendo proprio le donne, in prima linea nell’accogliere e nel preoccuparsi della tenuta del tessuto sociale, finiscono per fare il gioco dei loro nemici. E’ evidente che sono completamente disorientati, allo sbando. Ma questa disponibilità ad aggredire le donne ci ricorda la disponibilità ad accettare e giustificare la violenza quando il simbolico traballa, ed è un atteggiamento diffuso. Pensiamo al senso d’ineluttabilità nei confronti delle varie guerre per difendersi dal terrorismo, portare la democrazia, proteggere le donne.

Grazie alle battaglie delle femministe venute prima di noi, sappiamo che dobbiamo avere mille occhi per evitare di essere usate strumentalmente. E’ evidente che con l’aumentare del pericolo terrorista proliferano i “difensori delle donne”. Dai tempi delle invasioni inglesi dell’Australia, in cui gli uomini si inventavano il rapimento di donne bianche per impossessarsi delle terre degli aborigeni, alla più recente guerra in Afghanistan, sappiamo di dover diffidare di chi afferma di combattere per aiutare le donne, perché indifese o inconsapevoli.

E così, anche questa volta, le vicende di Colonia hanno riaperto il dibattito sulla questione migratoria e sono state messe sotto accusa le decisioni di Angela Merkel di aprire le frontiere, mostrando l’uso strumentale delle donne, che diventano terreno di speculazione politica.

La libertà femminile non dipende dal numero di immigrati presenti in un paese e non si difende alzando barriere. Per far fronte alla violenza sulle donne e uscire dal patriarcato la politica delle donne che noi amiamo punta sulle relazioni, sul conflitto e sulla mediazione, sul fare spazio dentro di sé per l’altro da sé. È precisamente quello che hanno fatto e fanno le femministe nel rapporto con l’altro sesso, quando non riducono l’altro a nemico e le donne a vittime. È una lotta a livello del simbolico, come quella fatta dalle femministe negli anni ’70 del secolo scorso: la mossa della separazione, mossa non ideologica, ha innescato una rivoluzione che ha permesso di ripensare le relazioni con l’altro sesso, non di rifiutarle.

Ora a noi spetta far spazio per chi viene da culture lontane e incomprensibili e per chi ha paura di quei mondi, avendo fiducia nella capacità di mediazione delle donne. È un compito arduo, ma ci sono già tante donne che lo fanno quotidianamente. Pensiamo alla sindaca di Lampedusa, che ne è un esempio illustre, e al lavoro con i migranti delle tante associazioni milanesi.

Per concludere, vogliamo riferirci a Gioconda Pietra, consigliera di maggioranza a Sesto San Giovanni, che in un bell’intervento su Via Dogana 3 intitolato «Non basta avere ragione» racconta una sua esperienza di violenta discussione con altre consigliere, che parlavano di arretramento culturale se si fosse accettato un corso in piscina per sole donne mussulmane. L’ascolto delle donne provenienti da luoghi in cui il patriarcato è ancora forte le ha permesso una mediazione per trasformare il suo senso di solitudine (e l’odio politico sprigionato dalla vicenda) e rimettere la politica al posto del potere.

 

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