di Elisabeth Jankowski
Come pietra paziente (Pierre de patience, Francia, Afghanistan, Germania e Gran Bretagna, 2012, 102’). Il film diretto dall’afgano Atiq Rahimi, che vive in Francia da 30 anni (sceneggiato con Jean-Claude Carrière), è tratto dal suo romanzo Pietra di pazienza vincitore del Goncourt nel 2008 (Einaudi). La protagonista è l’attrice iraniana Goldhifeth Farahani.
Un film schierato, contro la guerra, naturalmente, e in un primo momento si potrebbe pensare che volesse promuovere la causa delle donne sottomesse in Afghanistan. Ma a un secondo sguardo si rivela che Atiq Rahimi sta parlando contro la violenza degli uomini, una violenza contro le donne e contro altri uomini, perfino della stessa propria fazione. Inneggia invece alla violenza delle donne. Difatti la protagonista tiene sempre il coltello a portata di mano e la sua confidente, la zia, si è liberata dalla condizione di donna sfruttata, esiliata e violentata solamente uccidendo un uomo. Anche la protagonista diventerà violenta, ma solamente nel momento in cui deve lottare per la propria sopravvivenza. Si potrebbe dire che il regista-scrittore distingue fra una violenza gratuita e distruttiva maschile e una violenza necessaria e liberatoria delle donne.
La formazione della giovane donna protagonista si svolge fra due luoghi forti, quello della guerra e quello dell’amore. Il primo è il quartiere sotto attacco dove si trova la casa che abita con le sue due figlie e il marito in coma che cura amorevolmente. È il luogo dei monologhi e solo alla fine il luogo di un vero incontro con il giovane uomo inesperto. In quell’inizio di vera vita amorosa è solo possibile il gesto, il toccarsi ma non ancora la parola dialogata.
L’altro è la casa-bordello dove vive e lavora la zia, unica parente rimasta alla giovane protagonista. Mentre il primo è un luogo grigio, o comunque a tinte pallide, polvere, spari, violenza di ogni genere, l’altro è un luogo a tinte calde, gioiose dove le donne praticano il mestiere dell’amore che non sembra in nessun momento sgradevole o colpevolizzante. Ed è in quel luogo che gli uomini si rivelano bisognosi, inesperti e fragili. Hanno bisogno di essere guidati dalle donne nell’amore.
Per la giovane protagonista è un luogo di rifugio e sicurezza dove porta le sue bambine per saperle ben accudite ed è un luogo della parola dove la protagonista può parlare con la zia, da donna a donna, e dove si compie la sua formazione interiore. È la zia che le rivela i segreti del pensiero patriarcale secondo cui alla donna sono riservate solo violenza e privazione di ogni libertà.
Una terza istanza è il corano sempre presente come oggetto nella stanza del marito e nelle invocazioni della donna nei momenti di sconforto. E sarà il corano, con l’aiuto della zia, che la guiderà verso la sua vita più vera.
I due luoghi riflettono la filosofia espressa nel film per bocca della zia: Chi non sa fare l’amore, fa la guerra. Difatti il marito è descritto come un uomo di guerra che già al fidanzamento e poi al matrimonio era presente solo in foto e quando è arrivato, alla fine, non ha avuto la capacità di guardare lei, di parlarle e di capire i suoi desideri.
Il regista parla di un popolo che è in guerra da generazioni e di uomini che vestono le armi come un abbigliamento quotidiano.
Non da sempre. Io mi ricordo gli anni Settanta quando studiavo all’università in Germania e avevo conosciuto più di uno studente afghano. Erano uomini dolci e belli e molto amati dalle donne. Delle due amiche afghane, che avevo conosciuto allora, oggi una fa la ginecologa e l’altra l’oculista. Non vorrei che il film facesse credere che il patriarcato nella forma più violenta si trovi in quella terra lontana. Il patriarcato è stato ovunque, e anche da noi e nelle nostre famiglie. Gli uomini differenti per indole, invece, esistono ovunque, anche in Afghanistan, come molti dei nostri giovani e, nel film, il soldato balbuziente.
Merito di Atiq Rahimi è quello di farci vedere una donna con il burqa, diventato ormai un’immagine importante dei nostri media. Non è quella donna repressa che si pensa comunemente ma una donna pensante, sensibile, intelligente che cerca la propria strada.
Ma ciò che stupisce di più in questo film è la citazione del Corano per bocca del muezzin che dall’altoparlante della moschea legge il testo sacro che accompagna la scena della città in guerra mentre la protagonista la attraversa per andare a trovare le figlie nella casa della zia. Riferisce il dialogo tra Khadija e Maometto, suo marito, che dice: “Khadija, sto per diventare pazzo”. Khadija lo consola e dopo ripetute afflizioni di Maometto Khadija gli rivela la presenza di un angelo.
Ed è la zia che afferma che Khadija avrebbe dovuto assumersi lei la parte dell’essere messaggera, il Profeta lei stessa, invece che dare solo consigli a Maometto. Ed è sempre la zia che parla della pietra di pazienza, che non solo dà la libertà alla persona, che ha confidato tutti i suoi segreti a questa pietra, ma fa anche diventare profeta ogni persona che si libera dalle ossessioni.
Così la protagonista può alla fine esclamare: “Sono diventata profeta. Sono diventata profeta”.