17 Novembre 2014
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«Come tanti piccoli Eichmann, evitiamo di pensare, per questo il totalitarismo ha vinto». Intervista a Margarethe von Trotta

di Rodolfo Casadei

«Oggi siamo tutti dei piccoli Eichmann. Come il criminale nazista di cui Hannah Arendt ha saputo cogliere l’intima essenza, evitiamo di pensare. Il totalitarismo ha vinto anche se ha perso come sistema politico. Per reazione ha prodotto un individualismo che è vuoto di pensiero». Margarethe von Trotta è stata molto chiara e non ha lasciato dubbi sulle motivazioni che l’hanno spinta, due anni fa, a girare il film Hannah Arendt. Il Centro culturale di Milano, che come Tempi aveva organizzato visioni del film all’inizio del 2014, venerdì scorso ha pure offerto ai milanesi l’occasione di incontrare la regista, che ha dialogato sul tema “La persona tra potere e libertà”. Nel corso della serata l’autrice de Gli anni di piombo ha evocato i temi dell’indipendenza, dei legami affettivi e di sangue, della scoperta della parentela stretta fra comunismo e nazismo a motivo della comune natura totalitaria. Si è detta d’accordo che oggi solo esperienze di amicizia possono aiutare i singoli a ricominciare a pensare e a cercare il vero se stesso. Tempi l’ha intervistata su questi temi, ma ha anche ceduto alla tentazione di provare a farle fare i conti con la sua esperienza di femminista storica. Infatti, Margarethe von Trotta sta al femminismo cinematografico come Roberto Rossellini sta al neorealismo o Sergio Leone allo spaghetti western. Chi legge quel che segue è in grado di giudicare come è andata.

Praticamente tutti i suoi film sono centrati su figure di donne che lottano per la propria libertà e la propria indipendenza. E il problema sta nel fatto che vivono in una società dominata dagli uomini. Ma che cosa intende per libertà? Il senso di questa parola è cambiato per lei nel corso del tempo? E in che relazione stanno indipendenza e libertà? Coincidono, secondo la sua opinione?
Non so se la mia opinione intorno alla libertà e all’indipendenza sono cambiate molto rispetto ai miei primi film. Io credo di essere ancora sulla strada che ho intrapreso anni fa. Forse in Europa la libertà e l’indipendenza delle donne sono un po’ cresciute in confronto ai tempi in cui ho iniziato a fare la regista, ma se si guarda al mondo, in Africa e nel Medio Oriente la condizione della donna è ancora terribile. Un po’ di indipendenza per la donna significa sempre anche un certo grado di libertà nella società. E un certo grado di democrazia nella società è sempre segno che si è realizzata una certa indipendenza della donna. Perché il punto è che le donne non vogliono il potere, ma l’indipendenza. Sono gli uomini che cercano sempre il potere. Noi vogliamo semplicemente avere la libertà di scegliere quello che è bene per noi, per la nostra vita, per il nostro sviluppo.

Guardando il suo film Hannah Arendt si giunge alla conclusione che il prezzo dell’indipendenza è la solitudine. Lei intendeva trasmettere questo concetto di ordine generale o ha voluto comunicare un’esperienza personale che ha ritrovato nella figura di Hannah Arendt?
Io non sono certo all’altezza di Hannah Arendt, una pensatrice che ha avuto grandi idee e che le ha difese con grande coraggio. Ma certamente quando si vuole affrontare il mondo con le proprie forze e guardarlo coi propri occhi, bisogna mettere in conto l’isolamento. E se scopri una verità, hai il dovere di dirla anche correndo il rischio di restare isolata.

Che cosa ammira di più in Hannah Arendt come pensatrice e donna del suo tempo?
Proprio questo coraggio di pensare con la propria testa, senza legarsi a una teoria o a una verità costruita da altri. Guarda coi suoi occhi e pensa con la sua testa. Va a Gerusalemme per il processo a Eichmann, pensando come tutti che si tratti di un mostro, di un criminale terribile. Lo guarda, e scopre che questa idea di lui che tutti avevano non corrisponde alla verità. Matura tutta un’altra concezione di questo criminale di guerra. Per me come regista è importante far partecipare lo spettatore alla sua osservazione, fargli vedere Eichmann come lo vede la Arendt, e permettergli di arrivare alla stessa conclusione.

Anche i legami sono un tema ricorrente nei suoi film. Penso a Sorelle, a Gli Anni di Piombo, al rapporto fra Ildegarda e Richardis in Vision. I legami sono un contrappeso al peso della solitudine che è il prezzo da pagare per l’indipendenza?
All’inizio le mie erano storie di sorelle e di amicizie. Non erano mai relazioni facili, fatte solo di gratificazioni. Soprattutto fra le sorelle si notavano sempre i contrasti. I legami nascono dalla ricerca di calore dentro al contatto con un essere umano, uomo o donna. Ma io credo che anche in questi casi si deve avere il coraggio di lasciare una persona se il rapporto non funziona più. Anche nel caso di un matrimonio, trovo giusto che una persona lasci l’altra se non possono più svilupparsi entrambi in modo giusto e adeguato alla loro personalità e al loro talento. Al prezzo della solitudine, appunto.

Secondo lei il tema del potere è ancora la questione centrale del rapporto uomo-donna nel mondo di oggi? Ci sono temi altrettanto importanti che noi dobbiamo scorgere nei suoi film?
La ricerca di se stessi. Non c’è solo il tema del potere nei rapporti fra i sessi e nei rapporti sociali nei miei film. Per me il punto è che cosa uno è pronto ad affrontare e a sopportare per questa ricerca di sé. E così si torna al tema della solitudine. Si torna sempre lì!

Solitudine e legami sono temi forti di Vision, il suo film su Ildegarda di Bingen. Che cosa ammira in particolare di questa santa medievale?
Quello che più mi interessava mostrare, era come una donna nel Medio Evo, che viveva sotto certe regole – regole della religione e della società – era riuscita a trovare la strada adatta a lei e al suo talento. Lei è suora in un monastero dove c’è un abate che detiene l’autorità, e lei deve essere obbediente, umile, modesta. Sente che ha dentro di sé delle cose che in quelle condizioni non può esprimere. Allora ha delle visioni che vengono da dentro di lei. Io non credo alla natura divina di quelle visioni. Io credo che sia tutto dentro di lei, che sia il suo inconscio che le viene in aiuto. Lei le esterna, e questo le permette di salire al rango di visionaria, profetessa accettata come tale dal Papa, da san Bernardo di Chiaravalle. Questo la mette in grado di scegliere la sua strada. Perfino di lasciare il suo convento, cosa totalmente proibita, per fondarne un altro. L’autorità che le viene dalle visioni le permette di lasciare il primo convento e di fondarne lei altri due. E lì ha la possibilità di studiare le scienze, praticare la musica, fare ricerche sulle piante, sulla fisiologia umana, eccetera. Il suo inconscio le dà lo slancio vitale per soddisfare il suo talento, che è poliedrico. Forse oggi sarebbe diventata una scienziata.

In quello che mi è sembrato il momento più drammatico del film, Ildegarda dice: «Richardis è mia figlia, e io sono la figlia di Richardis». Cosa intende dire?
È una frase che si trova in una delle sue lettere, indirizzata proprio alla giovane monaca Richardis subito dopo che era stata trasferita in un altro monastero. Dobbiamo pensare che Ildegarda è stata lasciata dalla madre in un certo senso due volte: la prima volta dalla sua vera madre, che l’ha portata in convento senza chiedere il suo parere; la seconda madre che perde è la monaca che si prende cura di lei nel convento, e che era anche un’amica. Quando muore, è come se perdesse la madre una seconda volta. Poi diventa lei madre, quando arriva in convento la giovane Richardis, che la ammira sconfinatamente e che diventa la sua prediletta e la sua figlia spirituale. Ma avendo perso la madre, allo stesso tempo cerca in lei anche quest’altra figura. Quando lei se ne va, per volontà del fratello, lei perde contemporaneamente una figlia e una madre! Io l’ho interpretata così.

Col sostegno della lettera in cui Ildegarda scrive quella frase.
Molta corrispondenza scritta da Ildegarda riguarda Richardis: lettere scritte al Papa, alla famiglia della monaca, e sempre per riavere nel suo convento quella ragazza. Si comporta come una pazza, emerge una passione fortissima che la lega a Richardis.

C’è un potere che le donne hanno e che gli uomini non hanno mai avuto: quello di ospitare dentro al proprio corpo un altro essere umano e di farlo nascere. Oggi è evidente che la tecnologia si sta sviluppando in una direzione che prevede l’esproprio di questo potere della donna. L’utero artificiale è dietro l’angolo. Lei considera questa evoluzione come una perdita di potere da parte della donna, oppure la considera un’opportunità che permetterà alle donne di acquistare più potere in altri ambiti della vita?
Io sono abbastanza vecchia, e forse retrograda. Ho avuto un figlio. Poter avere un figlio, far nascere un bambino dal tuo grembo dopo averlo cresciuto dentro di te, per me è stata un’esperienza fondamentale. Che non contraddice la mia idea di indipendenza: si può essere indipendenti e avere figli. Ma forse per una nuova generazione di donne l’utero artificiale rappresenterà una nuova possibilità per avere più autorità sulla propria vita. Senza dimenticare che il prezzo sarà una perdita di importanza delle donne, perché le macchine e la tecnologia potranno sostituirle e creare la vita.

Infatti le biotecnologie stanno tecnologizzando la nascita. Gli esseri umani sono sempre più dei prodotti e sempre meno dei nati. La nascita come inizio totalmente nuovo che fa irruzione nel mondo è uno dei temi più importanti del pensiero della Arendt. Ma quando la nascita è totalmente pianificata, nessuna novità può entrare nel mondo come un nuovo inizio. Lei cosa ne pensa?
Certo, ci si può lamentare di questa tendenza, ma sappiamo bene che una volta che una cosa è stata inventata, non si torna più indietro. Questo è un fatto. Anche se ci lamentiamo, un fatto è irreversibile. Vorrei ricordare che la nascita è anche la nascita della tua coscienza, della tua visione di te stessa. E questa è la vera nascita. Non è solo una questione fisica, del corpo. È quando tu capisci che devi cercare te stesso.

Ma se tu sai che sei nato come un prodotto, che gran parte di te è stata pianificata da altri, non diventa problematico il prendere coscienza di sé? Quando l’alienazione comincia sin dall’embrione?
Sì, ma non c’è una differenza così grande fra l’essere prodotto dalla tecnologia oppure no: si tratta sempre di te, che ti trovi su questa terra. Anche chi è nato da un padre e da una madre spesso non conosce il padre. Nella misura in cui hai un corpo, una mente e un’anima per cercare te stessa, l’importante è quello. L’essere umano è capace di trascendenza. Puoi sempre trascendere quello che gli altri volevano per te, pretendevano da te.

Lo psichiatra e filosofo Jacques Lacan ha scritto che l’uomo e la donna sono troppo diversi per essere definiti complementari. Possono almeno capirsi e camminare fianco a fianco nella vita?
Sì, ma ci vuole una gran volontà. La volontà di capire se stessi deve essere tanto grande quanto quella di capire l’altro. Qualche volta succede che la gente lotta tutta la vita per essere se stessa e per capirsi, dimenticando di allargare il campo fino ad includere l’altro. È difficile avere per l’altro lo stesso interesse che hai per te stesso. Entrare dentro l’altro come un attore o un’attrice entrano dentro a un personaggio, si identificano con lui. Per capire le sue sensazioni ma anche le sue debolezze. Un uomo e una donna che agiscono così, questa sarebbe per me la coppia ideale. Quella di chi vuole entrare nell’altro per capire, non solo per criticare e per distruggere.

Dopo tanti anni come regista che ha girato soprattutto film sulle donne, come risponde alla semplice ma terribile domanda: «Che cos’è una donna? Che cosa fa di una donna una donna?».
Non lo so. Quello che so è che essere donna è una cosa che non si sceglie. Si può solo accettare. Sei nata donna, devi accettarlo. Ma non è poi così difficile. È molto più difficile diventare un essere umano, un essere completo.

(www.tempi.it, 17 novembre 2014)
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