21 Marzo 2016
#VD3

Con l’universalismo è lei che ci perde

di Silvia Niccolai

Il corpo femminile fecondo

Domenica 13 marzo 2016, 2° anno 2° incontro della

Redazione allargata di Via Dogana

 

Prima era la reclusione domestica, adesso è il mercato, prima erano le leggi, adesso sono i soldi, prima era competizione fra i maschi, adesso è mentalità aperta delle femmine… cambia la strada per arrivarci, cambia anche il risultato?

Dedichiamo la redazione allargata di Via Dogana 3, a quest’antica questione nei termini che sta prendendo oggi. Il femminismo è un campo di battaglia, abbiamo detto, e ne abbiamo oggi una conferma. Che sia anche un’occasione per entrare nei cambiamenti in corso con nuove idee.

Silvia Niccolai, costituzionalista, e Luisa Muraro, della redazione di VD 3, introducono l’incontro dedicandosi brevemente a due argomenti:

Introduzione di Silvia Niccolai:

Con l’universalismo è lei che ci perde

Il mio intervento si chiama Con l’universalismo è lei che ci perde, che era il titolo di un mio articolo. Quello che veramente penso però è un po’ diverso, ed è che con l’universalismo ci perdiamo tutti. Penso che se lei perde, è sempre il segnale che stiamo tutti perdendo qualcosa, e precisamente libertà. Or ora Luisa Muraro ha parlato di indisponibile: l’universalismo tocca, si prende, qualcosa che è invece indisponibile, cioè l’idea di ciò che siamo e di ciò che possiamo essere e che ciascuna e ciascuno dovrebbe poter coltivare a partire da sé.

Limitarsi a dire che con l’universalismo Lei ci perde non sarebbe del resto certamente una novità. Da tanto tempo il pensiero delle donne ha disvelato che l’universalismo neutro, nel linguaggio o nella costruzione filosofica del soggetto, cancella la soggettività femminile. Io dal mio campo, che è quello del diritto, l’universalismo lo conosco nei dispositivi politici e giuridici in cui si traduce, il principale dei quali è l’uguaglianza di tutti davanti (o sotto?) la legge. È un’idea che ha tante implicazioni, e le conosciamo: una è che il bene dell’eguaglianza è reso possibile dall’esistenza di un potere che la realizza e la garantisce, sicché parlare di eguaglianza, invocarla, discettarne, significa sempre anche chiamare in causa il potere, designarlo come insostituibile e buono, corroborarlo e coccolarlo. L’uguaglianza davanti alla legge incorpora per questo una visione gerarchizzata della convivenza: affinché ci sia eguaglianza ci deve essere qualcuno che capisce quel che serve agli altri e ha il potere di darglielo. Nella lente dell’eguaglianza davanti alla legge le differenze sono sempre e solo qualcosa di negativo, o ingiusti svantaggi o ingiusti privilegi. È così che il messaggio universalista dell’eguaglianza davanti alla legge si rende amabile, quasi indispensabile: prima ci insegna che le differenze sono cattive, poi ci dice eccomi qui per difendervi. Infatti l’universalismo si presenta sempre con l’accattivante promessa di maggiore progresso, maggiore giustizia per tutti.

Queste sono cose che sappiamo ma quello che c’è di nuovo è che oggi i dispositivi neutri riemergono nel discorso politico-giuridico con una esplicita valenza di attacco alla differenza sessuale. Perché? Io penso che la differenza sessuale viene attaccata perché essa presuppone e mette all’opera un soggetto libero di pensarsi a partire da sé e questo è scomodo.

Purtroppo, il nuovo universalismo che si presenta con queste caratteristiche si associa alle rivendicazioni dei ‘diritti delle persone omosessuali’, l’espressione ‘persona omosessuale’ è del resto un neutro. Che l’universalismo si travesta dietro una causa ‘giusta’ non è una novità, l’occasione che esso coglie dal mettere avanti i ‘diritti delle persone omosessuali’ è però del tutto speciale: contestando ‘tutte le differenze’, può finalmente aggredirne una, quella che ci fa donne.

Queste cose le ho viste dal mio punto di osservazione, io studio il diritto antidiscriminatorio e qualche anno fa, più o meno proprio quando è uscito il libro di Luisa Muraro Non è da tutti (un titolo che più chiaramente anti-universalista non si può!) mi sono imbattuta nella cd. svolta universalistica dell’antidiscriminazione americana. Bisogna che dica due parole su questo contesto. Negli Usa più che da noi un soggetto sociale può ottenere la protezione antidiscriminatoria (ambitissima in un sistema che ti ‘protegge’ pochissimo a meno che tu non abbia titolo a tutele speciali) solo se dimostra di essere un gruppo storicamente svantaggiato, escluso dal processo politico, ecc. Questa cosa è stata garantita negli ultimi 60 anni ai neri e alle donne, ma ci hanno provato e ci provano tutti a conquistarla, soltanto che, oggi come oggi, la tutela antidiscriminatoria sarebbe venuta a noia (si dice) alla ‘gente’, alla classe ‘media’ che (nella disperazione di una competizione sociale spietata, dico io) non riconosce né ai neri né alle donne né ai disabili né ad alcuno il titolo a essere protetto e comunque odierebbe la ‘frammentazione per gruppi’ che genera ‘ansia da pluralismo’, tutte cose appunto di cui sarebbe colpevole la protezione antidiscriminatoria. Insomma: dopo essere stata usata per sedare e governare varie problematiche sociali, oggi la protezione antidiscriminatoria è più un problema per i governanti che altro. In questo quadro si sono inserite le rivendicazioni dei gay. Questi ultimi non possono aspirare con successo alla tutela antidiscriminatoria, perché non possono dimostrare (secondo i parametri Usa) di essere una ‘minoranza insulare’ di poveri marginali socialmente e politicamente ininfluenti, dato che si sa che gli omosessuali numerano tra gli intellettuali gli artisti o i politici. D’altro canto, se se ci provassero si troverebbero contro l’opinione pubblica stanca (perché piena di risentimento sociale) di gruppi che chiedono protezione. Tenendo presente tutto ciò molti teorici, coi sondaggi e i ‘termometri sociali’ alla mano, hanno cominciato a suggerire di battere un’altra strada, cioè quella di dire: noi non chiediamo protezione come minoranza ma come esseri umani, che aspirano alle libertà fondamentali comuni a tutti, universali.

Sicché è cominciata una revisione delle classiche questioni anti-discriminatorie, distinguendo tra:

a) quelle che si prestano a essere universalizzate, quindi sono ‘moderne’, in linea coi bisogni della società e le nuove tendenze politiche, ‘corrette’ e anzi utili al bene comune, non divisive, oltretutto non costose, perché non puntano a ottenere ‘aiuti’ sociali ma solo ‘dignità’ e ‘riconoscimento’, e

b) quelle che non si prestano a essere universalizzate, che riguardano cioè questioni irrimediabilmente minoritarie che sono ormai storicamente recessive e oltretutto nocive alla società perché ‘divisive’.

Esempio principe delle prime questioni: il matrimonio, la famiglia la procreazione. Non diciamo più “vogliamo il matrimonio omosessuale”, hanno pensato gli ideologhi, che è un discorso che evoca i gruppi e le divisioni sociali, fa paura alla gente, ha stancato, è fuori moda; diciamo che vogliamo “il matrimonio per tutti”, sottolineando che il matrimonio attiene alle libertà fondamentali dell’essere umano. Se la mettiamo in termini di matrimonio per tutti suscitiamo empatia negli etero, sollecitati a pensare come sarebbe brutta la loro vita se non potessero sposarsi; affermando di aspirare a tagliare il prato il sabato mentre i bambini giocano dimostriamo inoltre di essere in linea coi valori collettivi.

E qual è, invece, l’esempio delle sciocche e recessive questioni non universabilizzabili, che, come tali, vanno lasciate a morire nel loro buio angoletto? L’aborto, che riguarda solo le donne e pertanto non si può universalizzare e che inoltre divide così tanto, che brutta cosa!, la società.

Quale sia il senso di argomenti di questo tipo mi sembra piuttosto evidente, e un primo punto me lo ha messo sotto gli occhi la mia amica Nora, che è filosofa, una volta che le raccontavo queste cose. Non c’è bisogno di essere sostenitrici del ‘diritto’ di aborto per accorgersi che in questo ‘nuovo’ universalismo, punta di diamante del progressismo contemporaneo, il quale considera l’aborto una ‘questione di donne’, ritorna un universale neutro che rifiuta di ammettere che gli universali sono due e che in tal modo continua a gerarchizzare le esperienze e le realtà.

E poi, che cosa vuol dire che l’aborto non è universabilizzabile perché è troppo conflittuale? Se non è il modo in cui ci rapportiamo, maschi e femmine, alla nostra sessualità, al desiderio, a come ce ne serviamo, a quel che con esso ci scambiamo, che cosa ci può essere di comune tra gli esseri umani? È un ben strano modo di pensare quello (veramente assai diffuso) secondo cui le questioni che fanno mondo comune sarebbero quelle non divisive. Al contrario, il mondo comune lo creiamo con le cose su cui confliggiamo, e dunque intorno alle quali ci parliamo, altrimenti è la morte. Allora, qual è la visione della persona umana, e del vivere insieme, implicita in una strategia argomentativa che punta sull’evitamento dei conflitti, che insegna che le cose che creano conflitto e discussione sono cattive e pericolose? Come donna, io ho imparato a cercare la mia libertà nel movimento esattamente contrario allo scansare o silenziare o negare i conflitti che vivo, e anche ieri, alla scuola di scrittura, Muraro diceva che evitare le situazioni difficili ‘impoverisce l’essere di essere’, diceva che è nello stare in presenza della contraddizione che nasce una strategia di vita pensante, e cioè libera. Le dottrine che suggeriscono di preferire le questioni che non dividono, le dottrine che, anzi, deliberatamente camuffano le questioni in modo che sembri che non dividono, hanno assai poco a cuore la libertà degli esseri umani.

Anche il tema del matrimonio, in sé e per come viene presentato, dà parecchio da pensare. Per esempio, nella sentenza della Corte Suprema Usa sul matrimonio gay si legge che una delle gravissime ferite alla dignità umana derivanti dal non riconoscimento del matrimonio same-sex a livello federale era che uno o una non poteva essere sepolta accanto al suo caro/a nel cimitero dei veterani. Al cuore della rivendicazione neo-universalista sta del resto l’affermazione che matrimonio omosessuale va riconosciuto perché corrobora i valori ‘veri’ della Nazione, perché così vivono i membri degni e onorati della società. Ora: se, per affermare i diritti delle persone omosessuali, si fa appello a bisogni ed esigenze di una indistinta normalità, la quale avrebbe per giunta dei contrassegni eterni, immutabili e certi tra i quali appunto il matrimonio (…Il matrimonio! Una cosa contro la quale per i suoi significati così tanto si è lottato!), che cosa vuol dire? Vuol dire che dietro la svolta ‘universalistica’ c’è l’individuo ‘generico’, cioè il contrario della soggettività pensante e senziente, che dice, nomina la realtà e le proprie esperienze desideri e bisogni a partire da sé.

Rapidamente mi sono accorta che questa pedagogia aveva un altro, fondamentale capitolo, rappresentato dalla maternità surrogata, che spiega anche benissimo come mai l’aborto viene declassato, dal nuovo universalismo, tra le questioni di serie b. Se si affermasse una libertà fondamentale delle donne nelle scelte procreative non sarebbero neanche pensabili i contratti di surrogazione, in cui la donna si impegna per l’appunto a non abortire ovvero anche ad abortire (se il ‘prodotto’ ha qualche difetto o, perché no?, se il cliente ci ripensa), ma comunque solo a richiesta dei committenti. Il nuovo universalismo, come tutti gli universalismi, è ingannevole: non è affatto questione di ‘veri’ diritti universali dell’essere umano, ma di un concretissimo conflitto tra interessi contrapposti. La storia che il matrimonio, con figli annessi, è un diritto universale, l’aborto non, sta lì apposta per nasconderlo. E come sarebbe che il matrimonio o la ‘procreazione’ sono certamente esigenze universali dell’essere umano, mentre altrettanto certamente non lo è la relazione materna? Perché? Come si spiega? Non si sa: le argomentazioni universaliste sono sempre assertive, le obiezioni non le prendono neppure lontanamente in considerazione, è con questo metodo che spazzano la realtà sotto il tappeto, come la polvere fastidiosa.

E poi ho dovuto prendere atto che le donne, in tante, si disponevano al seguito di queste argomentazioni, accettando felicemente il ruolo di comparse in un discorso che è integralmente fatto a discapito della libertà femminile, da cui prescinde del tutto, dato che neppure una sua virgola è stata pensata a partire da e con a cuore le esigenze di una donna (che, anche se lesbica, il figlio se lo vuole lo può fare lei direttamente). Ma le donne vanno dietro, come ieri chiedevano la parità (ancora oggi non ce ne è mai abbastanza!) oggi chiedono la stepchild adoption che per i gay si fa via maternità surrogata, e, al massimo, riducono quest’ultima a un problema di sfruttamento economico delle povere (ecco che allora spuntano prontamente le americane che non lo fanno per bisogno!) e si gingillano con l’idea delle leggi che mettono divieti o con l’illusione della gratuità, la quale rivela il permanere di un’idea tutta donativa del femminile e, temo, di un femminile che continua a ritenere che di importante una donna può fare solo i bambini e allora, se questa cosa ce la chiedono i gay, che carini, grazie, ci date importanza. Facilitando la presa del discorso sulla maternità surrogata queste donne, a mio giudizio, dispongono di qualche cosa che non è loro, cioè il senso dell’esperienza materna e la genealogia femminile, che il nuovo universalismo declassa a cose secondarie, irrilevanti tra quelle che contano nella vita e nella convivenza umana; nel fare questo esse adottano il tipico atteggiamento che pure in tante critichiamo come ‘neoliberista’, il quale consiste appunto nel prendere una cosa che non è solo tua e disporne come se fosse tua.

Mi è tornato in mente Non credere di avere dei diritti, la vicenda dell’aborto, le donne che plaudono a una battaglia che altri conduce per sé sul corpo delle donne.

Mettendo insieme queste cose ho cominciato a dirmi: la differenza sessuale non ha fatto in tempo a emergere in questo secolo che è stata attaccata violentemente, si potrebbe parlare di una lotta del nostro tempo contro la differenza sessuale: è una lotta che è iniziata col dispositivo della parità, e ora si esprime come neo-universalismo, ma si avvale sempre dei soliti meccanismi, il cui obiettivo è silenziare l’esperienza.

Prendiamo gli ‘stereotipi di genere’, vero paradigma della grande battaglia paritaria di liberazione di tutte donne dal loro opprimente destino. La lotta contro gli stereotipi di genere, l’idea stessa di stereotipo di genere serve a impedire, per esempio, che il desiderio delle donne di avere figli e tempo per la casa sia letto come una forma di resistenza alla subordinazione della vita alle pretese delle forze economiche, e come la proposta di un diverso modo di lavorare che, per tutti, non metta più al primo posto i valori produttivistici del successo nella carriera, o la resa ai diktat del lavoro precario e senza confine. Qui c’è Lia Cigarini, abbiamo letto Il doppio sì. La lotta agli stereotipi facilita la repressione e l’isolamento delle manifestazioni di libertà femminile, che vengono tutte bollate come il perdurare di una subalternità delle donne non ancora sufficientemente emancipate dai ruoli ‘tradizionali’ oppressivi. E questo è stato solo un primo capitolo. Oggi a tutti gli esseri umani viene insegnato che ciò che essi sono, fanno, pensano e desiderano essere è solo il frutto di errate, dannose costruzioni sociali. Certo, è bello illudersi di potersi scrollare di dosso quegli ‘stereotipi’ che ci bloccano, è anche comodo credere che siano proprio essi a impedirci di essere liberi; ma il fondo del discorso è che, se ciò che siamo non è che costrutto sociale, noi non esistiamo e nulla possiamo creare liberamente e bene. La lotta contro gli stereotipi implica una visione negativa, tutta pessimistica, degli esseri umani, considerati impotenti, e del nostro mondo sociale, che costruisce solo cose brutte. Io credo in effetti che le stesse teorie ‘di genere’ e queer piacciono tanto al potere (che le usa a piene mani per legittimare la sua lotta universale contro gli ‘stereotipi di genere’ e cioè contro la storia, la tradizione, la memoria anche in quegli aspetti di civiltà, come appunto il legame materno, che vi si esprimono) perché presuppongono una visione debole, suddita dell’essere umano, ridotto a mero costrutto sociale, manipolato, manipolabile. Così va avanti la lotta contro tutte le differenze, e l’obiettivo mi sembra piuttosto visibile. Il crinale che cancella l’Io preclude che sia pronunciato un Lei. E viceversa.

Mi spiego così le ragioni della lotta del nostro tempo contro la differenza sessuale, che non è ‘solo’ una manifestazione di ritornante misoginia.

L’idea di differenza sessuale dice che la nostra nascita sessuata, al femminile o al maschile, è per ciascuna e ciascuno una risorsa per orientare la propria esperienza, i propri valori non in un modo solipsistico, ma di necessità nella relazione con altri, e cioè con le simili, nel caso delle donne, attivando anche il ricordo e la memoria, sicuramente il pensiero e il giudizio e scoprendoci capaci di dare un senso libero alla nostra esperienza, compresa quella ereditata dal passato. La differenza sessuale è un dispositivo anti-autoritario, amico della libertà di tutti gli esseri umani, difende la visione della persona umana non come ‘individuo statistico’ che piace tanto agli autoritarismi di ogni tempo (va bene per il campo di concentramento, per la fabbrica, per il consumismo, per la ‘democrazia’ plebiscitaria, per le argomentazioni astratte costruite in serie), ma come ‘intelligente essere morale’ portatore ciascuna e ciascuno di una ‘propria legge e una propria verità’. È, a me pare, l’ultimo campo del pensiero e dell’esperienza in cui l’essere umano è guardato come soggetto, essere pensante e senziente, dunque libero, per questo la differenza sessuale viene attaccata, per attaccare questa idea dell’essere umano, che dà fastidio. E questo significa che nell’attacco del nostro tempo alla differenza sessuale tutti perdiamo, perché è l’attacco a un’idea di libertà che non appartiene solo alle donne ma a tutte le posizioni trascendenti del pensiero che negano che l’individuo sia interamente creabile dalla società, dalle organizzazioni in cui è inserito, e rivendicano che esso possa ‘vivere secondo le naturali e profonde implicazioni della sua natura’, pensare in modo autonomo, che è affermare la (propria) verità e in questo senso essere libero e fare libertà (che è portare il nuovo, l’imprevisto, ma c’è qui Muraro e non c’è bisogno che lo dica io).

La stessa parola neutra ‘omosessuale’, l’odioso camuffamento del nuovo universalismo come grande battaglia per i diritti dell’individuo generico ‘omosessuale’ sta proprio lì a impedire di riconoscere la differenza sessuale, dunque il conflitto tra i sessi, dove invece sta e per quello che denota. Questo nuovo grande neutro propone a una donna omosessuale di pensarsi più simile a un maschio omosessuale che a un’altra donna, nega con ciò l’idea stessa di differenza sessuale e di matrice femminile, di autorità femminile. È utile che le lesbiche solidarizzino con la battaglia per la maternità surrogata, dalla quale a loro non viene niente, e intanto dimentichino che, grazie al fatto di esser donne, e di poter partorire, hanno un enorme di più rispetto ai maschi quando si tratta di costruire una famiglia, o anche di provare a farla riconoscere dalla legge. Il meccanismo su cui si basa il nuovo universalismo è allora uno ben noto: “dividere una donna dalla sua simile privandola della sua fondamentale risorsa di libertà che è l’appartenenza al genere femminile” (Non credere di avere dei diritti).

Un altro neutro è l’‘omofobia’, la cui messa al bando, mi chiedo, sta lì per criminalizzarmi se voglio far problema della sessualità maschile violenta, anche quando è omosessuale? In che misura questo nuovo neutro aspira a, o può avere l’effetto di, ricreare zone franche di libera sessualità maschile indiscutibile? La rivendicazione universalistica camuffa l’aspirazione a che le donne tornino complici, o sottomesse, all’immaginario di qualcun altro?

Un giorno raccontavo queste cose alla mia amica Simonetta, che è qui presente. Guarda che sono le donne che ci perdono a farsi alfiere dei diritti dei maschi, il tema dei diritti degli omosessuali è intriso da cima a fondo da una retorica misogina e da prassi nocive per le donne e lei mi disse: eh, però passa il messaggio buonista poverini diamogli questi diritti per noi che male c’è? È come se, quando si evocano i diritti, la gente smettesse di pensare.

È vero, perché per vedere queste cose bisogna essere disposti a pensare che anche il discorso progressista-universalista è un discorso autoritario, si tratta sempre di voler cambiare la gente in funzione di un piano o di un progetto, questo mix tra progressismo e autoritarismo ci accompagna dall’alba della rivoluzione francese, è scritto dentro il principio di eguaglianza come principio anti-caste che travolge il passato e costruisce il nuovo, che è sempre migliore e più giusto, è l’aria mefitica in cui siamo immersi. È un principio, anche, che ha voluto a tutti i costi screditarne un altro, pur profondamente radicato nella nostra tradizione, giuridica, e filosofica, dove l’eguaglianza non nasce separata né dalla giustizia né dall’esperienza e tanto meno in opposizione alla differenza. Quest’altro principio io sono abituata a chiamarlo ‘uguaglianza in senso classico’, è il principio del dare a ciascuno il suo, di trattare in modo eguale l’eguale e diverso il diverso, e alla luce del quale l’uguaglianza, e la giustizia, sono una ricerca che presuppone la capacità di ogni singolo essere umano di sentire, dal suo punto di vista, dalla sua situazione, il giusto e l’ingiusto, di testimoniarlo, di valutarlo, nelle concrete, variabili, circostanze di tempo e di luogo: se all’atleta e al neonato dai ogni giorno la stessa quantità di carne non stai affatto dando l’eguale, cioè il giusto; il furto della pecora non sarà della stessa gravità se il derubato di pecore ne ha mille, oppure una sola. Capisco che un tempo si potesse restare perplesse davanti alla quantità di pregiudizi patriarcali che questo criterio poteva veicolare quando si tratta di individuare ciò che è uguale, ciò che è diverso, o quanto è pregevole una certa cosa. Ma in sé non è affatto un criterio patriarcale, se lo adopri in un contesto dove circola libertà e giudizio femminile, te li restituisce. Per questo, oggi come non mai i dispositivi paritari e antidiscriminatori, coi loro presupposti universalistici, si affannano a contrastarlo: è un principio che rifiuta di ridurre l’eguaglianza a un dato quantitativo (lo stesso), come vuole l’universalismo egalitario, e la vede come un problema qualitativo, perciò non demonizza, ma valorizza le differenze, che costituiscono la realtà, senza fare i conti con la quale non c’è giustizia. Quando si obietta che questo principio quando nacque valeva solo per i liberi, bisognerebbe replicare: appunto. Da una ricerca così orientata, in un mondo dove le donne hanno parola, possono nascere risultati imprevisti, ed essa sottende per definizione che la realtà non possa essere uniformata a un programma, rimanda alla libertà umana, fatta di soggettività infungibili.

Soltanto il pensiero della differenza sessuale, a mia conoscenza, nel tempo a noi contemporaneo, ha saputo pensare che non ogni asimmetria viene per nuocere, ma ne abbiamo bisogno per ragionare, per situarci, per vivere e che dentro di noi, ciascuna e ciascuno, abbiamo un senso del giusto e dell’ingiusto a orientarci. Quel che apre al possibile, al nuovo, è ciò che sentiamo, vediamo e pensiamo nel concreto della nostra esperienza, con la nostra biografia, le nostre relazioni, i conflitti che sappiamo aprire, reggere, nominare.

Pensare così minaccia da sempre gli obiettivi pianificatori di ogni potere, per questo la differenza sessuale è sotto attacco. E vorrei chiudere con un esempio. Sebbene io non sia proprio un’esperta di letteratura sulle famiglie gay o lesbiche ho letto un po’ e una cosa ho notato: apparentemente ad avere problemi psicologici di vario genere sono solo le donne e le famiglie lesbiche. In particolare, ho trovato articoli che si soffermano su questo punto: quando una diventa mamma è un vero problema per l’altra, sta male, perché non si può essere mamme allo stesso modo! Capito? Invece di dirti che nel di più dell’altra puoi vedere un’opportunità per te, per diventare di più anche te a modo tuo, ti certificano che il suo di più è un fattore di disturbo per la tua salute mentale.

Questo mi ha ricordato una affermazione che viene attribuita a Richelieu, il quale una volta avrebbe detto: “Non è poi così male questa rivoluzione che ha imposto l’eguaglianza sotto la legge. Una superficie tutta piatta facilita l’esercizio del potere”.

La differenza femminile a me appare oggi ciò dove va a situarsi quel che dell’umano resiste a essere ridotto a una superficie tutta piatta: per questo viene addirittura patologizzata, apertamente teorizzata come una cosa che fa soffrire le donne, comunque crea problema, e va curata con dosi da cavallo di parità e universalismo. E questo lo accosto al dato, per cui le madri surrogate intraprendono per contratto una terapia psicologica che le prepara a separarsi dal bambino. Se i diritti universali ‘delle persone omosessuali’ alla famiglia e alla procreazione richiedono questi meccanismi, ovverosia il lavaggio del cervello, dunque la negazione della capacità di una persona di dare senso alla propria esperienza, mi pare la prova provata che la libertà umana è il vero target contro cui il nuovo universalismo conduce la sua battaglia. Sotto le mentite spoglie dei ‘diritti degli omosessuali’ ad avanzare è di nuovo, grintoso, un potere che ci vuole subalterni ed evidentemente ha capito che stavolta, se riesce a prendersi Lei, si prende tutti, e tutto.

 

Nota

La letteratura specialistica e la giurisprudenza che richiamo in questo intervento sono riferite nei miei lavori, Il dibattito sulla svolta universalistica e dignitaria del diritto antidiscriminatorio (Diritto e Società, n. 3/2014) e Maternità omosessuale e diritto delle persone omosessuali alla procreazione: sono la stessa cosa? Una proposta di riflessione (online in Costituzionalismo.it, 4/2015), voglio però almeno dire che alcune espressioni che uso, come ‘individuo generico’ o ‘intelligente essere morale’, vengono dal filosofo del diritto Giuseppe Capograssi, e che devo a Francesco Cerrone, collega e mio compagno di vita, se lo ho studiato. Le idee che espongo in questo testo hanno parecchi altri debiti, in particolare verso le mie amiche Nora Racugno, Simonetta De Fazi, Anna Rita Oppo, con cui ho la fortuna di chiacchierare spesso, e verso Clara Jourdan: è la costanza della sua amicizia che mi ha onorata di poterne ragionare in Libreria insieme a tante donne di pensiero.

(Via Dogana 3, 21 marzo 2016)

 

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