di Antonella Nappi
Quando la libreria ha chiamato a riflettere su come parliamo delle donne non aspettavo altro: dire quello che ho voluto sempre fare.
Ho sempre parlato bene delle donne, dal primo femminismo, perché imparai ad amarle e conoscerle, a scorta arrivava il capire me stessa e conoscermi.
Come l’adolescenza in ogni cosa, arrivò nei primi anni ’70 la fatica di salvare me e loro nelle nostre differenze, processo infinito lungo la mia emancipazione dalla fusione con loro, e poi dalla insicurezza nel confronto delle idee, e ancora dalla delusione che non fossero comunque garanti anche del mio pensiero, che io fossi in effetti sola nelle mie idee, che mi dovessi bastare. Non è mai finita la battaglia per difendere le mie idee e abbeverarmi a quelle delle altre, per verificare che il pluralismo sia una realtà benefica per tutte, ma di difficile concezione per la fragilità di ciascun essere che non sia avvezzata alla coesistenza, all’ascolto del differente, al sapersi anche mentre tace.
Amarle e poi amarmi, e nonostante la differenza amarle ancora è stato l’esercizio quasi spontaneo di sempre (oggi mi conviene specificare per combattere una confusione che detesto: parlo di amore; non di desiderio sessuale o erotico). All’inverso comprendere me stessa mi ha portata a comprendere le donne, e così via, amo ormai sempre di più l’umanità, i processi naturali e tutte le creature.
È il conoscere che rende amabile, sapere di sé e degli altri, sapere di come le cose avvengono, di come si trasformano, “sapere” infonde amore.
Valutare il buono delle donne è stata la mia abitudine e intenzione sempre di più nel tempo, è avvenuto per empatia e per consapevolezza dei miei limiti; l’esistenza e l’azione di altre, il loro pensiero mi garantisce di non essere sola al mondo e di potermi aspettare benefici dagli altri non solo da me stessa. Preferisco riconoscere ad altre un pensiero prima che a me stessa, se così ho rintracciato, per la passione di valorizzare il nostro essere tante.
Certo qualche volta una critica, lucida oppure egoistica, la lancio come una frusta; e mi dà soddisfazione, riguarda l’azione di quella persona, un’azione per cui ho invidia (come Lia ci segnalò moltissimi anni fa) oppure fastidio: è il desiderio di avere con lei un confronto, di capire le sue ragioni e le mie.
(Tutto il femminismo a me è sembrato questo: comprendere la nostra sfiducia nelle donne e comprendere di che cosa fosse fatta. Vi trovammo l’opera instancabile degli uomini nello sminuire e deridere le donne, la nostra omologazione al pensiero maschile per sollevarci da una appartenenza che ci umiliava e ci opprimeva, la divisione dei compiti che snaturava la natura umana ed era la causa della svalorizzazione dei compiti dati alle donne e della esaltazione di quelli dati agli uomini. Vi trovammo la differenza delle donne dagli uomini come risorsa politica e intellettuale da scoprire, ma anche le differenze di ciascuna così come le somiglianze. Ci sono tutte le somiglianze degli esseri umani da ragionare, naturalmente è un lungo percorso.
Forse questa osservazione veniva data per scontata, proprio la libreria delle donne ha sviluppato la conoscenza della letteratura femminile da sempre e la discussione tra donne, a partire dalle soggettive esperienze è stata la prassi di tutto il movimento negli anni in cui si è costituita e l’ha continuata, così come anche moltissimi gruppi di donne hanno fatto.)
Come mai allora il ritorno su un dubbio: le donne non parlano bene di loro stesse, come fare per riuscire a non parlarne male?
Io sono fuori dai social, sono anche fuori dalla riflessione più interna alla libreria perché godo soltanto delle discussioni allargate e rarissimamente l’ho condotta; ora, dopo l’incontro a cui ho partecipato su questo argomento che da parte delle conduttrici è stato sviluppato sul conflitto tra pensiero giusto e sbagliato, sulle tensioni politiche tra donne, sulla didattica alla comunicazione tra donne; comprendo come sia scaturito da una attualità che vede chi lavora alla politica tra le donne essere immersa nella lotta di idee. E mi sovvengo di come la comunicazione solipsistica della scrittura, il confronto solo con le interlocuzioni che tu scegli sia ben più facile rispetto alla interlocuzione polimorfa del reale. Una comunicazione che va condotta mettendosi al servizio della comprensione del pensiero di altre e moltissime altre, per districare qualche filo conduttore, partendo dai più oscuri ma utilizzando i più chiari. Un puro servizio alla moltitudine! E dunque l’esperienza delle classi e dell’insegnamento, dell’autoritarismo e dei rischi paludosi dell’antiautoritarismo torna alla mente anche a me; così come l’abbandono per me risolutorio delle situazioni collettive più compromesse o anche di quelle dialogiche che hanno un retroterra troppo distante e troppo urgente. Abbandoni utili al fiato da prendere, al tempo da non perdere, all’attesa che qualche cosa maturi in altri e in me, abbandoni che mi lasciano vivere e che non sono definitivi.
Io ho dato per scontato che anche nel gruppo della libreria le persone abbiano fatto il percorso che personalmente ho fatto io. Un confronto con una realtà che mi respinge e qualche volta mi accetta, ma per parti; oggi ma non domani; con la lunga emarginazione; soprattutto con la comprensione degli altri e dei fatti che li motivano e delle azioni che compiono e dei risultati che conseguono; tutte cose che mi arricchiscono e mi modificano e mi fanno capire che io sono me ma il mondo è pieno di altri soggetti e forze diverse che agiscono inevitabilmente su di me. La trovo una esperienza benefica perché credo sia la verità, il limite che ci fa essere nel mondo, senza potere sugli altri ma con il piccolo nostro potere di comprendere.
(Via Dogana 3, 23 maggio 2018)