26 Maggio 2017

A proposito di performatività corporea. Judith, ti ho capito!

di Giordana Masotto

Il giorno 20 maggio 2017, circa alle ore 16, a Milano, nei dintorni del Castello, ho fatto esperienza di quello che spiega Judith Butler nel suo ultimo libro L’alleanza dei corpi (nottetempo, 2017). La strada e la piazza erano colme di donne e uomini che partecipavano alla manifestazione “Insieme senza muri”. Allegria e forza saturavano l’aria. Le diversità – di storia, di cultura, di soldi, di pelle, di speranze – erano indossate ed esibite con tranquilla determinazione. Dunque si percepivano bene le abissali distanze – e le disuguaglianze – che separavano quei corpi vicini. Eppure si sentiva una possibilità di incontro. I costumi di peruviane e cinesi all’improvviso prendevano senso, superando qualsiasi rischio di spettacolarizzazione esotica. Il ballo scatenato di giovani africani – che esibivano i teli dorati da salvataggio come fossero preziosi costumi rituali – a sorpresa me li rendeva più normali, più veri e meno stereotipi.

Lo spazio comune della piazza creava davvero quella possibilità di senso e di incontro, vagheggiato magari, ma che rimane sempre, poco o tanto, difficile, astratto, temuto.

La manifestazione, la piazza, da questo punto di vista, non sono il gesto funzionale al raggiungimento di un obiettivo. La piazza non la si prende per dare visibilità all’obiettivo, per esibire/misurare la forza dei simili. Andare in piazza può essere agire politico se ogni soggetto è lì a partire da sé per connettersi agli altri. È questa intenzione che crea la possibilità di politica. Con un gesto ad alto valore simbolico, come sanno bene le donne che hanno creato spazi separati proprio per poter ritornare da soggetti nello spazio pubblico. Lo spazio pubblico – piazza e strada certo, ma anche il lavoro e più in generale le mille forme di interazione che sperimentiamo – è per eccellenza lo spazio in cui non possiamo scegliere con chi convivere. Anzi: come dice Butler rifacendosi ad Hannah Arendt, «se non esistesse quella pluralità che non possiamo scegliere, non ci sarebbe libertà»; e quindi «la prossimità indesiderata e il carattere non-scelto della coabitazione sono precondizioni della nostra esistenza politica». D’altra parte, veniamo al mondo senza il permesso di nessuno e da quel mondo, che non ci ha autorizzato, dipendiamo per tutta la vita. (Aggiungo questa nota perché ne parla Butler e sorprendentemente in piazza un giovane inalberava un cartello che più o meno diceva: «quando mia madre mi ha messo al mondo non avevo il permesso di soggiorno»). Mi piacerebbe che di queste “prossimità indesiderate”, di ogni tipo, con cui possiamo agire politica, continuassimo a ragionare insieme.

(www.libreriadelledonne.it, 26 maggio 2017)

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