31 Agosto 2020
Duoda

Chi deve star lontano è lui: magistrati e mariti

di Lola Santos Fernández, Ana Silva Cuesta, María-Milagros Rivera Garretas


Ci arriva la notizia di un magistrato del tribunale costituzionale spagnolo indagato per aver picchiato la moglie che, secondo il giornale, uscì sulla terrazza della sua casa di Madrid gridando e chiedendo aiuto. Come in altri casi di violenza maschilista, furono i vicini o le vicine, allertate dalle urla della donna, ad avvisare la polizia che, recatasi al domicilio della coppia, arrestò il presunto maltrattatore e lo portò al posto di polizia, continua la notizia.

Scopriamo che il magistrato si chiama Fernando Valdés Dal-Ré, e che alcune di noi l’hanno conosciuto quando era professore di diritto del lavoro. Un uomo apparentemente affabile, con un percorso professionale immacolato, progressista, e titolare di una scuola da cui provengono donne e uomini che hanno avuto successo in campo giuridico. Membro fino ad oggi del tribunale costituzionale, massimo organo di difesa della Costituzione e dei suoi diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita e all’integrità fisica.

Il mondo giuridico, malato e devastato dalla schizofrenia che recupera la vecchia divisione patriarcale tra privato e pubblico, esplode dall’alto. L’Alto tribunale sembra albergare nel suo seno il più alto di tutti i delitti: la violenza contro le donne, che è violenza contro la vita, contro il senso della giustizia e contro l’apertura all’altro. Questi, e non altri, dovrebbero essere i principi informatori e ispiratori di un ordine di convivenza che riconosce e impara dall’ordine simbolico della madre. Quello che invece fa il diritto, è voltargli le spalle e disprezzarne in maniera profonda tutte le implicazioni, come la più elementare che ha a che vedere con la cura dei corpi, l’opera della madre.

La notizia ci turba, tocca quella parte nostra di giuriste che si è formata dando credito a norme che ci allontanavano da nostra madre e dal suo ordine di senso. Credito che da tempo è andato svanendo per lasciare in noi un vuoto consistente e attento al senso di giustizia. Ed è proprio questo senso che ci dice, un giorno dopo, quando gli stessi mass media smentiscono goffamente ed eliminano precipitosamente la notizia dai titoli, che la negazione della violenza da parte della donna maltrattata da un magistrato costituzionale non indebolisce, come pretendono i giornalisti, bensì rafforza la verità dei fatti. Importa molto anche che il racconto dei fatti davanti all’istanza giudiziaria sia cambiato da un giorno all’altro, così come il rifiuto della moglie del magistrato di sottoporsi alla pratica della prova medico-legale sul suo corpo. Davanti all’impossibilità di sapere cosa dice il corpo e le sue cicatrici, la verità resta allora sospesa, filtrando nell’aria, innalzandosi oltre il diritto processuale e i suoi oscuri tracciati procedimentali. Che valore potrebbe avere per noi il comunicato del tribunale costituzionale che si appella alla presunzione di innocenza di uno dei suoi magistrati? Sentiamo che è un grido malato, disperato e inefficace. Un grido che finisce per collocare ogni cosa al suo posto, lasciando sgombra l’evidenza del fatto che probabilmente uno dei suoi uomini è incapace di sopportare nella vita quotidiana la grandezza femminile.

Perché una donna doveva credere nella giustizia amministrata da uomini come quello che ha accanto? Nelle mani di chi stiamo mettendo noi donne la cura dei nostri corpi, delle nostre vite, della nostra dignità? Capiamo bene che la moglie abbia ritirato o non abbia mai fatto la denuncia.

Come potevano Antigone o Medea aver fiducia nel loro padre, nel loro fratello o nel loro marito, uomini che non distinguono il bene dal male? Si tratta di un’impossibilità grande che fa ammutolire. Impossibilità che solo qualche volta si muta in sollievo per la donna quando chi giudica il maltrattatore è un’altra donna – una giudice –, una simile, che proprio perché lo è e non vi rinuncia porta alla giurisprudenza e alla giustizia una grande opportunità: di iscrivere nelle sue risoluzioni giudiziali la differenza di essere donna, dando valore ed essendo fedele alla genealogia femminile. Una fedeltà che può spiegare che, ad oggi, Elena Garde, la giudice specializzata in violenza sulle donne che istruisce il caso di Fernando Valdés, non abbia archiviato la causa – nonostante non possa contare nemmeno sulla denuncia della donna –, valutando indizi di maltrattamento fisico e portando al supremo tribunale la sua esposizione ragionata dei fatti. Per lei è stata sufficiente la testimonianza di uno dei giovani che chiamò la polizia che, secondo le sue dichiarazioni, sentì come la moglie del magistrato gridava e chiedeva aiuto, perché sa che la verità è rimasta in alto, fluttuando nelle altezze, aspettando il suo vero posto. Intendiamo che questo dovrebbe essere un diritto di qualunque donna, la scelta della giudice per giudicare il presunto maltrattatore in ordine alla comprensione che i diritti delle donne possono essere tali solo se nascono dal riconoscimento della differenza sessuale, o dell’inviolabilità del corpo femminile, che è sacro. Altrimenti, che cosa resta alle donne se non vogliamo che la nostra dignità subisca un doppio attacco, prima con le botte e dopo pubblicamente nei tribunali? Chi tutela la dignità delle donne maltrattate? E la loro vita?

Adesso il presunto violento è libero e temiamo per la vita di sua moglie, che speriamo se ne sia andata di casa o stia in buona compagnia, benché, come ha puntualizzato una donna che ci guida nella ricerca di giustizia, chi deve stare lontano è lui. Lontano da lei e lontano dalla giustizia. Solo così, allontanando i maschilisti e misogini dalla sua amministrazione, forse un giorno noi donne potremo aver fiducia nel diritto.


(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, www.libreriadelledonne.it, 31 agosto 2020. Originale: El que ha de estar lejos es él: magistrados y maridos, http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/270/, 13 agosto 2020)

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