31 Maggio 2018

Cliente? Chiamiamolo con il suo nome

di Massimo Lizzi

 

Ho sempre visto la prostituzione come una condizione di servitù sessuale e non ho mai creduto possibile riconoscerle una dignità, tanto meno per mezzo di una legittimazione giuridica o di un linguaggio mutuato dal lessico professionale, commerciale o da qualche inglesismo. D’altra parte, non sarei capace di sopportare l’idea di vedere prostituita una parente stretta o una cara amica, non vedo perché dovrei accettarla per una donna estranea e anonima. Tra i miei conoscenti, pochi sono quelli che ammettono di aver frequentato prostitute. Tra questi, i più dicono di aver avuto una sola esperienza deludente, perché lei fu troppo passiva. Mio padre mi raccontò qualcosa di simile: appena giunto a Torino, giovane immigrato dal sud, nel 1953, andò subito in una casa di tolleranza: la prostituta rimase stesa inerte sul letto tutto il tempo e lui non ci tornò più. Il comportamento riferito della prostituta, lascia immaginare una resistenza passiva o una rassegnazione mortifera.

 

Comprendo, dunque, fin quasi a condividerle, le affermazioni che vogliono mettere fuori dal femminismo chi è favorevole alla prostituzione. Affermazioni che hanno il senso della scomunica e so non corrispondere al vero, perché conosco varie femministe favorevoli o possibiliste nei confronti della prostituzione, che preferiscono chiamare lavoro sessuale o sex working. Molte altre sono problematiche e non arrivano mai a una parola definitiva, a differenza di tante femministe del Nord Europa, che su questo argomento mostrano di avere le idee più chiare, come Rachel Moran, autrice del libro Stupro a pagamento, ospite della Libreria delle donne lo scorso 20 maggio. Aperti e possibilisti sono anche tanti uomini amici del femminismo. Il possibilismo maschile, tuttavia, lo reputo meno accettabile. Con il possibilismo, le donne hanno un conflitto tra loro; gli uomini hanno un conflitto d’interessi.

 

L’atteggiamento ondivago e compromissorio nei riguardi del sesso a pagamento credo abbia a che fare con le condizioni e la cultura del nostro paese. In Italia è molto ampia la disoccupazione femminile e nell’arte di arrangiarsi, la prostituzione rimane una possibilità, frutto di un calcolo che si può fare. L’Italia è un paese di cultura cattolica e i cattolici, nonostante il moralismo loro attribuito, hanno storicamente tollerato la prostituzione come male minore, come sistema fognario delle turpitudini maschili, a tutela delle donne per bene. Le culture tradizionali trovano nelle pieghe delle culture moderne le ragioni per riprodursi e giustificarsi, per esempio, nella declinazione neoliberale della libertà femminile o in quella individualista dell’autodeterminazione.

 

Ad aiutare questo riciclaggio culturale è pure un linguaggio che rappresenta il fenomeno come fosse centrato sulla donna che si offre e non sull’uomo che la domanda e, nell’insieme, come una operazione di mercato. È, dunque, molto giusta l’idea di ridefinire il linguaggio che nomina la prostituzione, per svelare la sua dinamica e il suo elemento propulsore: la domanda maschile di poter disporre del corpo di una donna senza doversi relazionare con essa e con il suo desiderio. In questo senso, come spiegano Rachel Moran e il femminismo nordico, ma anche le femministe spagnole, il cliente è un prostitutore, la prostituta una donna prostituita e la prostituzione un abuso pagato.

 

Da questo nuovo modo di nominare le cose, penso si debbano trarre tutte le conseguenze, anche sul piano giuridico, altrimenti si esprime un messaggio divergente sul piano simbolico: nominato il ladro, è impossibile esonerarlo dalla sanzione del furto. La legge Merlin non è una via di mezzo tra il modello nordico dell’abolizionismo e il modello tedesco della regolamentazione. La legge Merlin è una legge abolizionista e ha la stessa filosofia della legge svedese: decriminalizza la prostituta e criminalizza ciò che le sta intorno: lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento, il libertinaggio. Non prescrive, è vero, una esplicita sanzione per chi acquista sesso. Però, se il cliente diciamo di vederlo come un prostitutore e tale lo nominiamo, vediamo anche che esso è parte in causa, anzi l’agente principale dei comportamenti che la legge italiana definisce come reati: induce, favorisce e sfrutta. La criminalizzazione del prostitutore (alias cliente), quindi, è coerente con la legge Merlin.

(www.libreriadelledonne.it, 31 maggio 2018)

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