11 Giugno 2019

Il due precede l’uno: cambio di civiltà

di Marina Santini e Luciana Tavernini


Quando, invitate a parlare del nostro libro Mia madre femministai soprattutto a giovani, presentiamo come scoperta del femminismo il fatto che nella vita di ogni essere umano il due precede l’uno, avvertiamo la densità del silenzio, quello in cui chi è lì all’unisono trattiene il respiro per lo stupore una verità tanto evidente da essere stata fino ad allora ignorata. Chiediamo poi di indicarne nel corpo il segno visibile e sempre c’è chi lo riconosce nell’ombelico, memoria dell’origine duale della vita. Ricordiamo che l’esistenza umana inizia con il sì della madre alla possibilità della crescita di altro da sé in sé. Questo vuol dire per lei accettare la modifica del corpo che è (non che ha) con l’imprevedibilità e la necessità dello stare a ciò che accade perché la creatura, pur nella sua totale dipendenza, reagisce alla vita della madre. Dunque la nascita è il risultato di una relazione duale non paritaria.

Che accade se facciamo di questa verità un punto di partenza nella rappresentazione del mondo e nel situarci in esso?

Innanzi tutto finisce l’individualismo autonomo e indipendente come orizzonte di vera realizzazione umana. Infatti la possibilità di ciascuna donna di farsi due, pur rimanendo una, ci abitua ad accogliere l’esistenza di altro da sé come sperimentata possibilità di trasformazione di sé, di apertura all’inconosciuto; a lasciare che altre e altri costruiscano, secondo il loro bisogno, una memoria vivente della relazione che c’è e c’è stata.

La generatività rende evidente la disparità tra donne e uomini. Le donne hanno possibilità di dire di sì o di no all’esistenza della creatura e hanno la certezza di partorire creature proprie (mater semper certa). Inoltre con questa consapevolezza, scaturita dall’autocoscienza e da altre pratiche, riescono ad agire una sessualità libera, legata al piacere reciproco e alla procreazione, se la desiderano.

Infine possono percepirsi come anello della catena che di figlia in madre si proietta nell’infinito passato, e di madre in figlia nell’infinito futuro (il continuum materno). Non a caso molte sanno stare alle relazioni in presenza, anche quando si ritrovano dopo anni di lontananza; amano lavorare in due, rinnovando la gioia dell’origine duale della creazione, e sperimentano forme di riconoscimento per non rubare il contributo altrui e segnare la dismisura insita in ogni rapporto.

Per gli uomini non accettare fiduciosamente la disparità con lei, come avveniva e avviene nelle società matriarcali, ha prodotto, attraverso il contratto sessuale tra uomini, forme di condizionamento e controllo della sessualità femminile (Carole Pateman). Se in passato la garanzia della propria ascendenza e discendenza avveniva attraverso la santificazione delle madri e la reclusione delle mogli, la verginità prematrimoniale, la legittimità della nascita derivante dal riconoscimento paterno, la rappresentazione dello spermatozoo come homunculus e dell’utero come vaso o come forno, oggi la scienza ne offre una versione aggiornata con il riconoscimento della paternità attraverso il DNA e con l’utero in affitto.

La possibilità femminile di dire di sì o di no all’esistenza della creatura, vissuta come potere di vita o di morte, ha portato molti uomini a invidiarla, e dunque a legiferare per proibire l’aborto e a organizzare con gli eserciti strutture legalizzate di distruzione del vivente come forma di affermazione di un contropotere nei confronti della madre (i più antiabortisti non sono forse i più guerrafondai?).

Il desiderio di infinito, senza riconoscimento del continuum materno, ha prodotto la costruzione di genealogie paterne (non per niente ‘bastardo’ e ‘figlio di puttana’ sono epiteti offensivi); la rincorsa della fama a tutti i costi, facendosi innalzare monumenti come segni imperituri del proprio individuale passaggio; la creazione di gerarchie maschili che fanno del ‘capo’, dell’uno, l’origine e dunque il controllo e la repressione dell’alterità.

Ha spinto a forme di accumulo senza limiti di denaro, rese ancor più smisurate e deresponsabilizzanti dalla sua apparente smaterializzazione, creata dall’economia finanziaria, che fa dimenticare come e quali esseri umani sono coinvolti nella produzione di ricchezza e quali tragedie ne provoca la penuria.

Agli uomini rimangono solo queste strade per non restare nella contingenza dell’individuo, nella finitezza della propria esistenza, nell’affermazione di sé attraverso la riduzione a strumento e cosa morta del vivente?


(www.libreriadelledonne.it, 11/6/2019)

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