30 Gennaio 2018

Il numero geniale

di Emanuela Mariotto

Quanto tempo occorre per parlare di un amore, quello per una lingua? Quanto tempo occorre per dire di un amore, quello per la madre? Più o meno lo stesso numero di anni, circa quindici.

Prima viene il libro, La lingua geniale (ed. Laterza), poi il racconto sulla madre.

Il libro di Andrea Marcolongo affascina. Ha un intento, trasformare le “paralisi” e “il terrore puro” che il greco ha provocato a molte e molti negli anni del liceo in passione. Infatti il sottotitolo annuncia “9 ragioni per amare il greco”.

Andrea, nonostante il nome maschile, anzi doppiamente maschile per l’uso che se ne fa nel nostro paese e per l’etimologia – Andrea in greco antico significa “il maschio” – è una donna, una giovane grecista. Il suo nome da maschio, dovuto a un padre imperterrito nella decisione di attribuirglielo, le ha provocato, da bambina, non pochi scherzi e non bastavano le consolazioni della mamma. «Andrea – le diceva – finisce con la A, quindi è un po’ femminile». No, Andrea non si accontentava, voleva un nome «tutto femminile, come le altre bimbe, non solo un po’».

Il capitolo che più mi aveva attirata è quello dedicato ai generi e ai numeri, che in greco erano tre, singolare, plurale, duale, per quel termine, duale, così caro al femminismo della differenza. Il numero a cui l’autrice dice ti amo, un numero che significa noi due – solo noi. «È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta». Ecco, avevo pensato, ora l’autrice parlerà del duale per eccellenza, la madre e la sua creatura. Invece, no. Ci dice di fratelli, di sorelle, di amici, di amanti, ma di quella coppia prima e primordiale, nulla. Mi ero chiesta: a una grecista come lei può non essere venuto in mente il mito di Demetra e Kore, la madre e la figlia fanciulla, che nei testi sono citate, appunto, con un bellissimo duale, tó theo, le due dee, madre e figlia così intimamente unite da comparire in antichi bassorilievi come un’unica icona e quasi indistinguibili? Nemmeno un accenno, invece. E mi era venuto il desiderio di chiederle il perché di quella omissione, di quella dimenticanza che a me era sembrata così clamorosa. La risposta alla mia domanda inespressa è arrivata, inaspettata, da un suo articolo, La forza di parlare ancora di mia madre.

La madre di Andrea è morta di cancro quando lei era poco più di una bambina, tra la quarta e la quinta ginnasio e lei, per non adeguare le sue reazioni alle aspettative degli altri «come piangere sconsolata per farmi da loro consolare», scelse di sottrarsi, di non mostrare la fragilità della sua condizione di orfana, cesura talmente profonda da indurla a descrivere la sua vita come divisa in due, la vita di prima e la vita seconda. La scomparsa della madre, del “tesoro perduto e irrinunciabile della relazione materna” secondo la definizione di Wanda Tommasi, le ha chiuso la bocca per un tempo lunghissimo, fino a farle scegliere di non parlarne a nessuno, né amici né fidanzati e, tanto meno, di evocarla in un libro. Ha “ricominciato a dirlo”, si è “ripresa le parole” di fronte alla domanda di uno studente durante la presentazione del suo libro in una scuola: Perché in greco essere umano si dice brotós, destinato a morire?

Così l’amore per il greco e l’amore per la madre si sono ricongiunti nella risposta allo studente e, finalmente, l’autrice ci dice di quella relazione che il duale sapeva esprimere così bene perché «esprimeva un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione […], un modo di dare numericamente senso al mondo […], il meno banale dei numeri, difficile da classificare, impossibile da normalizzare. Il duale ha senso solo perché il greco antico sentiva il bisogno di esprimere linguisticamente qualcosa di più di un numero matematico, qualcosa che noi abbiamo perduto impegnati a far linguisticamente di conto con il pallottoliere della vita in mano: il senso delle relazioni tra le cose e tra le persone […].

Coloro che hanno avuto il raro privilegio di amare davvero sapranno sempre distinguere la differenza di intensità e di rispetto che intercorre tra pensare “noi due” e “noi”.

(www.libreriadelledonne.it, 30 gennaio 2018)

Print Friendly, PDF & Email