4 Maggio 2020

Io non finisco con me

di Luisa Pogliana


Le donne sono più interessate a coltivare la vita che a coltivare un’illusione di immortalità.


Alla mia età non ho problemi finanziari, ho una casa spaziosa, insomma, condizioni materiali più fortunate di altre per vivere questa reclusione. Però io ho sempre bisogno di lavorare, nel senso ampio di fare cose che sento utili, che hanno un senso per me. Per questo da anni sto portando avanti progetti su ciò che mi interessa di più: le donne nel management.

Il blocco mi ha fermata di colpo. Mi sono sentita abbattuta e disorientata.

Ma nella vita mi sono trovata più volte a ridefinire la mia identità, perché le condizioni erano cambiate. Come quando ho lasciato la militanza politica con il cuore a pezzi di delusione, ma poi sono stata più libera nel movimento delle donne. Come quando ho dovuto lasciare il lavoro di una vita come manager perché la situazione non era più accettabile, ma poi sono diventata consulente internazionale lavorando in quattro continenti. Come quando anche questo è finito per lo scoppio di una guerra dove stavo lavorando, ma così ho potuto dedicarmi totalmente alle attività che più mi coinvolgono. Lacrime e angosce ci sono state sempre, ma sempre è stato possibile costruirmi altre vite che mi andavano bene. I granchi cambiano il guscio perché è necessario per crescere.

Questa crisi non è certo un passaggio paragonabile, però mi sono trovata a dirmi: e adesso cosa faccio? Da molto volevo scrivere – senza trovare il tempo – sulla genealogia delle donne nel management, donne che il management lo hanno fondato e definito già da metà Ottocento fino ad oggi, con sorprendente continuità di pensiero: una diversa concezione del potere. Ora sto scrivendo di questo, studio e imparo, e sono contenta. Si, sono contenta perché è una mia scelta e una fortuna starmene in casa a fare un ‘lavoro’ che mi piace.

Ma ovviamente non è così per tutti. Intorno a me ci sono donne che devono lavorare con il cosiddetto smart-working. Cosiddetto perché quello che si fa in questo periodo è un telelavoro, che va bene se scelto o necessario, ma non è ‘lavoro agile’, cioè con una flessibilità di presenza fisica gestita soggettivamente. Le richieste delle donne di tempi e modi diversi di essere presenti sul posto lavoro si fondano sul desiderio di esserci, e anche con le altre persone con cui lavorano. La flessibilità non è un sottrarsi, è l’aspettativa di poter lavorare bene e poter vivere bene. La necessità forzata di oggi si traduce spesso per le donne con una famiglia, in doppio lavoro anche peggio del solito, perché non è cambiata la distribuzione di ruoli con i mariti. E per altre donne, per esempio se vivono da sole, è un sofferto isolamento sociale. Credo che bisognerà stare attente all’uso dello smart-working dopo questa fase. Sarà positivo se le aziende finalmente capiscono che un lavoro flessibile è possibile e vantaggioso. Ma occorre che questo modo di lavorare riguardi uomini e donne allo stesso modo. Che non sia riservato alle donne come lavoro di serie B (oggi molti lo vedono così, come già il part-time) subordinato alle incombenze famigliari ancora più cementate sulle loro spalle. Bisognerà curare che non diventi un modo di espellere le donne dal lavoro qualificato, dalle carriere già tanto limitate. Che non diventi un passo fuori.

Pur avendo io, invece, questa positiva situazione personale, ho però altre angosce (come molte persone) perché io non finisco con me. Penso, per esempio, a mia nipote e altri nipoti. Che futuro li aspetta, a breve, nel lavoro? E a lungo termine? perché eventi così si ripeteranno se non ci saranno cambiamenti drastici sul clima, sul modello di sviluppo.

Ma davanti a questo scenario vediamo uomini politici che di questo magari parlano, ma non hanno progetti, strategie. Sono occupati a badare al loro potere, alle scelte da fare in funzione del loro interesse individuale, limitato e contingente.

Questo mi ha fatto pensare che sarà ancora più necessario riprendere appena possibile uno dei miei progetti sospesi: Un passo in alto. Proposta politica alle donne – manager in particolare – di ambire ai ruoli decisionali alti, per cambiare il potere maschile e misogino che domina in quei luoghi. L’ho pensato perché nella gestione di questa pandemia da parte del potere abbiamo visto solo uomini che decidevano e pontificavano, e solo donne a capo dei governi che hanno gestito questa crisi straordinariamente bene. Certo non basta essere donne per avere una capacità di visione e azione realistica e lungimirante, ma le donne lo fanno di più. Perché?

Penso che la brama di potere che non lascia mai gli uomini (esemplari gli ultraottantenni che cercano ancora di essere ‘presidenti’ di qualcosa) sia un modo di tenere lontana la morte. Non concepiscono un mondo dove loro non ci sono più, vedono la fine del loro potere come se fosse la fine della vita. C’è una grande differenza nelle donne. Le donne vivono di più nella realtà, temono meno ciò che può accadere con lo svolgersi della vita, lavoro e ruoli compresi, e senza paura che ci sia una fine. Sono più interessate a coltivare la vita che a coltivare un’illusione di immortalità. Hanno prospettive più ampie. Immaginano il mondo come un posto dove non vivremo sempre noi: nascono dei figli, altre generazioni succederanno a noi. Per questo si occupano seriamente del futuro. È un concetto di ‘sostenibilità’, non a caso introdotto da due donne*.

Spesso mi sento impotente di fronte a queste pesanti prospettive: non so cosa posso fare. Poi mi dico che farò quello che riesco a fare, e che ci sono tante altre persone che ci pensano. Ho raccontato di me per questo, per dirmi che niente è determinato a priori, e forse riusciamo a fare qualcosa, insieme. Sperèmm, come si dice a Milano.

(*) Il concetto di sostenibilità è stato introdotto per la prima volta dalla scienziata, biologa e zoologa statunitense, Rachel Carson, nel suo testo più famoso, Silent Spring, Primavera silenziosa, del 1962, che lanciò il movimento ambientalista.

Successivamente, in politica, è stato utilizzato da Gro Harlem Brundtland, a capo del governo norvegese per complessivi 10 anni tra il 1981 e il 1996. Nominata dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, presidente della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, redasse il Rapporto Brundtland, Our Common Future, Il Nostro Comune Futuro, 1987, che conteneva una definizione di sviluppo sostenibile che coniugava aspettative di benessere e di crescita economica con il rispetto dell’ambiente e la preservazione delle risorse naturali.


(www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2020)

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