di Marta Equi
Un gruppo di galleriste, artiste, curatrici, direttrici di musei, insegnanti e altre figure professionali del sistema dell’arte internazionale (tra cui artiste del calibro di Laurie Anderson, Cindy Sherman, Barbara Kruger e Jenny Holzer e galleriste come Sadie Coles e Barbara Gladstone) si presenta in questi giorni con la campagna L’abuso di potere non soprende (Abuse of power comes as no surprise)1. Nella lettera aperta, pubblicata dal The Guardian, le circa 7000 donne annunciano che non staranno più in silenzio rispetto agli abusi esperiti in questo mondo e perpetuati da artisti, galleristi, collezionisti, direttori etc.2
Non trovo sconvolgente l’accusa rivolta al mondo dell’arte – sono cose che noi sappiamo. (Appunto, no surprise.) Piuttosto, cioè che mi sembra interessante è questo: il cambio di registro. Mi spiego. È un momento di successo, si potrebbe dire, per il femminismo nel mondo dell’arte contemporanea; mi riferisco a importanti mostre internazionali, sezioni dedicate a fiere d’arte e acquisizioni consistenti nei musei di arte femminista o di arte prodotta da artiste.
Eppure, le firmatarie scrivono che si tratta di istituzioni e di individui di potere che beneficiano, finanziariamente e simbolicamente, dal riferimento al femminismo, senza cambiare in realtà i comportamenti sessisti e degradanti, tacitamente accettati in questo mondo.
Secondo la mia lettura della campagna, il punto chiave è che queste donne non chiedono (più) maggiore riconoscimento delle opere delle artiste o altre operazioni di visibilità nel sistema, ma si espongono in prima persona nel dire e chiamano a responsabilità gli altri soggetti coinvolti. Questo passaggio è importante perché indica come non sia più sostenibile l’idea di una autonomia astratta dell’opera (e di tutto ciò che le è connesso, il Sistema dell’Arte) rispetto alla persona che ne è a diverso titolo coinvolta (produzione, curatela, critica etc.).
L’arte, per me, è quel prezioso ambito del nostro stare dove una possibilità di senso, poeticità e libertà è sempre a disposizione, nella sua fragilità.
Ma non si può più credere nell’opera in assenza di una presa di responsabilità personale – ce lo insegna Carla Lonzi. In questo senso la critica femminista, sempre contemporanea, non distrugge, ma semmai pone le basi perché quel prezioso ambito del nostro stare sia vero e abitabile.
1 L’espressione cita un’opera d’arte degli anni ottanta di Jenny Holzer, facente parte della serie “Truisms” (verità inconfutabili / ovvietà)
2 Leggete qui la lettera mandata al The Guardian (Lunedì 30 ottobre)
Qui il sito dove si possono leggere i nomi delle firmatarie e seguire l’iniziativa sui canali social
(www.libreriadelledonne.it, 16 novembre 2017)