16 Febbraio 2024

L’autorizzazione viene da noi

di Silvia Baratella


Un nuovo #metoo è in corso all’Università di Torino. Le studentesse stanno denunciando abusi, ricatti sessuali e ritorsioni da parte di alcuni docenti e le notizie cominciano ad approdare sulla stampa. Mi ha colpita l’intervista in merito a una delle universitarie torinesi, andata in onda a Prisma su Radio Popolare del 13 febbraio

L’intervistata, iscritta a un corso di laurea frequentato quasi solo da maschi, ha ricevuto attenzione da uno dei suoi docenti e ha pensato di aver finalmente incontrato un professore che teneva in considerazione le ragazze. Le aveva persino proposto di fare la tesi con lui. Peccato che l’avesse fatto toccandola un po’ dappertutto, spalle braccia faccia, tanto che lei si era chiesta se non ci stesse provando. Si era risposta che non era possibile, che era solo un modo di fare. Quando si è cominciato a parlare di docenti molestatori in ateneo, le è venuto subito in mente lui e si è detta di nuovo che era impossibile. Solo quando il nome di lui è uscito nero su bianco sulla stampa se ne è convinta, e a quel punto le sono venuti degli attacchi di panico. Tranne quel professore, ci tiene a precisare, i docenti maschi la hanno sempre rispettata. Commenta che è inaccettabile che una ragazza arrivi a non rendersi neppure conto di essere stata molestata, che la colpa è dello Stato che non fa educazione sessuale.

Il racconto è sincero e sentito e il quadro che ne esce è rivelatore. Intanto, il sollievo che prova la studentessa quando un professore finalmente si accorge di lei (prima di capire che è per molestarla) è indicativo del riconoscimento che una giovane donna può aspettarsi in quell’università: i docenti “non molesti” ignorano le allieve fino a farle sentire inesistenti, sarebbe così che le “rispettano”? Poi, la studentessa racconta di uno sdoppiamento che tante donne hanno vissuto e da cui molte sono uscite grazie al confronto fra donne e all’autocoscienza: lei sa benissimo che il professore la sta molestando, ma è convinta di sbagliarsi; sa benissimo che lui ha i requisiti del molestatore, ma lo ritiene impossibile finché non glielo certifica l’autorità del “quarto potere”. Solo allora si autorizza a credere a sé stessa e a provare il panico che le covava dentro. E alla fine chiede smarrita a un’altra autorità di potere, lo Stato, di decretare che ciò che ha dolorosamente vissuto (ed è stato per forza doloroso per lei, se ha scatenato attacchi di panico a posteriori) è un abuso e che lei è autorizzata a considerarlo tale.

Affidandosi così allo Stato però sancirebbe la rinuncia al suo sentire e alla sua esperienza, la rinuncia alla sua verità soggettiva. Lei, come tutte noi, non ha bisogno che il potere le dica che cosa sa già di aver subito, ha bisogno di credere a sé stessa. Non ha bisogno di un corso di educazione sessuale per sapere quando una mano addosso, anche solo sulla spalla o sulla guancia, non la vuole. E che di conseguenza quella mano, lì, non deve starci. Ha bisogno della relazione con altre donne per autorizzarsi a dar credito al proprio sentire. È creando relazioni con altre che può contribuire a creare un’università a misura di donna. Io le auguro con tutto il cuore di riuscirci e forse questa sua presa di parola pubblica sarà un primo passo; di sicuro è preziosa perché permetterà di fare chiarezza ad altre che vivono la stessa confusione.

Però sarebbe d’aiuto se i movimenti organizzati la smettessero di inventare e proporre sempre nuove rivendicazioni che mantengono le donne dipendenti da chi deve concedergliele: distolgono un sacco di energie dallo sperimentare spazi comuni di libertà.


(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2024)

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