11 Marzo 2019

Le tre giudici di Ancona. Terza puntata della serie Parlare bene delle donne

di Luisa Muraro

 

Immagino i commenti desolati, a cominciare da: povera Italia, un’altra brutta figura all’estero! E adesso ci si mettono anche le donne! Con quella sentenza, non c’è dubbio, faremo il giro del mondo.

Parlo ovviamente della sentenza d’appello di Ancona che ha assolto due giovani uomini già condannati in primo grado a tre e cinque anni per violenza sessuale su una loro coetanea. La sentenza d’appello è stata annullata di corsa: vizio di forma, processo da rifare, ecc., subito dopo la lettura delle sue motivazioni. Fra le motivazioni, c’è (c’era, ormai è carta straccia) che la vittima non era abbastanza desiderabile, oltre a essere di origine peruviana. Non mi risulta che nessun giudice di sesso maschile si sia spinto a tanto nel disprezzo della legge e delle donne.

Come noto, la Corte d’appello era formata da tre donne. Nelle loro aberranti motivazioni, io trovo un tocco d’inconfondibile femminilità… Se pensate che in queste mie parole ci sia della misoginia, non lo escludo: esiste una misoginia femminile, l’ho imparato leggendo i Piccoli racconti di misoginia di Patricia Highsmith.

Ma il mio scopo, qui, è di difendere quelle tre. Ovviamente, anch’io sono, come voi, sbalordita dalla loro immaturità psicologica e dalla loro ignoranza del mondo. E, come molti, mi chiedo: ma dove hanno studiato legge? Chi le ha fatte entrare e avanzare nella magistratura? E come hanno potuto trovarsi in tre, tutte tre d’accordo fra loro a ragionare così storto, cioè fuori dal diritto? Bisogna sapere che, nelle motivazioni della sentenza che nega credito alla vittima e assolve gli stupratori, c’è allegata una foto di lei a riprova della sua non desiderabilità da parte maschile, e questa foto sarebbe un elemento di prova che prevale sul certificato medico che ammette la violenza sessuale.

Scrive il grande filosofo Montaigne (e così comincia la mia difesa): le donne che si rifiutano di seguire le regole del vivere che vengono via via fatte valere a questo mondo, non hanno del tutto torto: sono regole fatte dagli uomini senza loro, le donne stesse (sans elles). Il filosofo, che sta riflettendo sui rapporti fra i sessi e sul desiderio sessuale, afferma che c’è giustamente un conflitto e parla esplicitamente di pretese contradditorie degli uomini sulle donne.

Sono passati secoli ma queste notazioni restano vere, specialmente in un paese come l’Italia. È un paese innamorato della bellezza fisica delle persone, forse a causa della tanta bellezza artistica e (per quel che ne resta) paesaggistica. Ma è governato prevalentemente da marpioni che una cosa dicono e un’altra fanno, per cui la sua antica civiltà, che brilla anche nel diritto, si è trasformata in una vischiosa arretratezza patriarcale. Non c’è donna che non sappia, sulla sua pelle, giorno per giorno, anno dopo anno, a nord o a sud, al mare o in montagna, in città o in campagna che cosa vuol dire apparire desiderabile, o viceversa, non desiderabile agli occhi dei maschi, con le conseguenze che ciò ha, a seconda delle circostanze: se sei ricca o povera, sola o in compagnia, in casa o per strada, in discoteca o in chiesa, vestita così o vestita colà, giovane o vecchia, in carriera o sui campi a raccogliere verdure… Il principio di uguaglianza? È scritto nella Costituzione, era sulle bandiere della rivoluzione liberale, è messo in testa alla proclamazione dei diritti umani e sui trattati internazionali. Ciò nonostante, sono due anzi tre secoli che le donne nei paesi sedicenti liberi e democratici combattono per vederlo riconosciuto, questo famoso principio, e ancora non ci siamo.

Per parte mia mi sono stufata del femminismo dell’uguaglianza e, al seguito di Carla Lonzi, dico: pretendo l’uguaglianza ma alla libertà intendo arrivare con la differenza del mio essere donna.

E domando: c’è veramente da scandalizzarsi se le tre di Ancona hanno ragionato non in base al diritto scritto ma in base al principio dettato dalla loro esperienza di donne suppongo graziose che è di piacere (agli uomini)? Io questo non l’ho mai fatto, mia madre mi ha insegnato neanche a pensarci, lo stesso ho insegnato alle mie studentesse, ma riesco, non dico a giustificarle, a capire il moto profondo che le ha portate a far valere, sopra la cultura ufficiale, la legge non scritta di una condizione vissuta quotidianamente a causa della diffusa inciviltà maschile.

Morale della favola: non bastano i trenta e lode, non bastano la parità o i diritti o le manifestazioni, tutto bene ma prima di tutto ci vuole la presa di coscienza che dà occhi, sentimenti e pensieri per giudicare il mondo nell’indipendenza da quello che va bene agli uomini. Si chiama indipendenza simbolica.

 

(www.libreriadelledonne.it, 11 marzo 2019)

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