23 Settembre 2022

Lei è morta e lui è libero: l’irreparabile e la misura (saltata)

di Tiziana Nasali


È stato proposto alla redazione del sito della Libreria un articolo scritto da Maria Dell’Anno in ricordo di Giulia Galiotto, uccisa nel 2009 dal marito e pubblicato su Noi Donne. La discussione che ne è nata è stata illuminante per le argomentazioni che alcune hanno portato a sostegno della sua pubblicazione. Provo a darne conto.

Scrive Maria Dell’Anno «…il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero».

Questo è il fatto, lei è morta e lui è vivo e libero. Questa contraddizione non ha soluzione perché l’omicidio, come una serie di altri reati, non può essere riparato attraverso il ripristino della situazione precedente. Lo Stato può soltanto, attraverso la pena, attribuire disvalore alle azioni umane e stabilire l’entità della pena, dando così una misura al disvalore.

Maria si chiede quanto disvalore lo Stato attribuisca alla vita di una donna uccisa dall’uomo che le è più vicino. Scrive: «13 anni. Dovevano essere 19. Una sentenza dello Stato italiano lo aveva condannato a 19 anni di carcere. 19 anni per averti tolto la vita». E più avanti: «Non che l’ergastolo riporti la persona uccisa in vita, però, non so, psicologicamente pensare che il tuo assassino non fosse più libero di vivere la sua vita mi dava una qualche forma di rassicurazione sull’equilibrio della bilancia della giustizia».

Capisco bene l’indignazione di Maria e dei famigliari della vittima: spesso di fronte a quei reati che colpiscono le donne, come molestie, stupri e ovviamente femminicidi, ho pensato che le pene comminate fossero troppo lievi e ho provato un senso di ribellione di fronte alle liberazioni anticipate. Pur riconoscendo la validità del principio sancito dalla nostra Costituzione che la finalità della pena debba essere la rieducazione e il reinserimento sociale di chi commette reati, la liberazione anticipata fa saltare la misura che Maria – e molte/i –  si era data interiormente per trovare l’equilibrio nella bilancia della giustizia. Sono consapevole che l’equilibrio è sempre difficile e precario quando si tratta di omicidi ma proprio perché nessuna pena riporta in vita la persona uccisa, è importante tenere viva la contraddizione. Tuttavia, quando si tratta di reati commessi da uomini contro le donne non è solo sul piano della legge che bisogna cercare giustizia. Forse non lo è in nessun caso, tanto che si diffonde sempre più la pratica della giustizia riparativa*, ma sicuramente non lo è nel caso dei reati contro le donne.

Scrive ancora Maria: «Lo Stato che ha condannato tuo marito a 19 anni per punire la tua morte e che poi l’ha liberato dopo 13 non ha detto nulla ai tuoi genitori. Non li ha informati che l’assassino della loro figlia ha pagato il suo debito con la giustizia, che è libero di tornare a casa […] lo Stato non si è curato di loro. Ha semplicemente chiuso un fascicolo di carta che portava il nome di tuo marito: liberato e affidato ai servizi sociali».

Non voglio discutere l’entità della pena: possiamo pensare che 19 anni siano tanti oppure pochi… a me personalmente 19 anni per un femminicidio sembrano pochi, ma non è questo il punto e mi pare che neanche per Maria sia questo.  Servono parole che aiutino tutte/i noi a elaborare l’irreparabile e a ritrovare una nuova misura quando la precedente salta. È il piano della giustizia, che nel caso dei reati contro le donne dovrebbe anche riuscire a rimediare allo squilibrio simbolico ancora presente nel rapporto fra i sessi e affermare nell’ordinamento giuridico il principio della inviolabilità dei corpi femminili.


(*) La giustizia riparativa ha come obiettivo quello di prestare più attenzione ai bisogni delle vittime nel processo penale attraverso il loro coinvolgimento attivo, quello dell’autore del reato e quello della comunità civile.


(www.libreriadelledonne.it, 21 settembre 2022)

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