26 Agosto 2023

Maschi, guerra e armi nucleari

di Umberto Varischio


Trovo interessanti e stimolanti le considerazioni che Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo, fa su “Il Manifesto” del 23 agosto scorso (https://ilmanifesto.it/oppenheimer-oggi-va-raccontata-la-fine-dellarma-nucleare), prendendo spunto dall’uscita nelle sale del film Oppenheimer, di Christopher Nolan. In particolare mi convince il giudizio critico che esprime sulla scelta del regista di concentrarsi «così intensamente sul dramma di una persona [il che] riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali». Sempre secondo Vignarca non si deve «cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata».

In tutto l’articolo una dimenticanza, non di poco conto, la commette anche lo stesso Vignarca quando parla di «fallimenti e fragilità umane […] persone corrotte da potere e ambizione che plasmano la storia [..] le armi nucleari sono state create in maniera collettiva» e si dimentica completamente di ricordarci che la quasi totalità delle persone coinvolte sia nello sviluppo delle armi atomiche, così come nella successiva proliferazione atomica siano stati maschi.

Come sostiene il pacifista norvegese Johan Galtung, il patriarcato, analogamente a ogni altra formazione sociale profondamente violenta (come le sottoculture criminali e le strutture militari), unisce la violenza diretta, quella che tocca intenzionalmente i corpi e i bisogni basilari degli altri, la violenza strutturale (che lede tali bisogni attraverso lo sfruttamento e la repressione derivanti dalla struttura sociale) e quella culturale (cioè quegli aspetti della cultura (come la religione e il linguaggio che legittimano la violenza diretta e strutturale) in un triangolo vizioso. I tre tipi di violenza si rinforzano reciprocamente e la constatazione della predominanza maschile nella violenza si può trovare in parte nell’interfaccia e nella perversa iterazione tra sessualità maschile e aggressività maschile.

Infatti, sempre secondo Galtung, gli studi evidenziano che l’orgasmo sessuale maschile e la violenza hanno molti parametri fisiologici e neurologici in comune, e quindi dal momento che orgasmo e violenza sono vicini neurologici, stimolare l’uno può stimolare anche l’altro. Essendo orgasmo maschile e violenza così vicini, reprimere l’uno può provocare l’altro; inoltre la curva del testosterone per gli uomini coincide con l’età militare, 16-65 anni.

Ovviamente la biologia non regola da sola questo terreno: probabilmente può spiegarne il 10-20%. Altri fattori oltre il corpo sono implicati nella violenza maschile e quindi nei conflitti militari: la cultura e in particolare il linguaggio e la religione (esempio la svalutazione della figura di Maria, la madre, nel protestantesimo); la struttura sociale; la mente, i meccanismi psicosociali che, per esempio fanno sì che allevare e nutrire, compiti principalmente delegati alle donne, sono un modo di creare ed espandere l’empatia umana. I quattro fattori operano sinergicamente e i meccanismi psicologici e biologici profondi possono rafforzarsi reciprocamente.

Di alcune proposte di Galtung (ovviamente discutibili) per diminuire i vari tipi di violenza di matrice maschile, una è volutamente provocatoria per noi uomini: l’utilizzo di farmaci anti-testosterone – che a differenza degli anticoncezionali chimici per le donne che invece sono stati promossi dagli uomini come strumenti della libertà sessuale (spesso solo la loro) e deresponsabilizzanti per quanto riguarda il controllo delle nascite – sarebbero rifiutati da noi maschi, sommamente preoccupati della loro potenza sessuale. Altre proposte riguardano un aumento del livello maschile di empatia attraverso schemi di socializzazione simili a quelli delle donne; il prolungare la relazione madre-figlio permettendo così alle donne di umanizzare i maschi – che però riverserebbe l’onere sulle donne. Lo studioso pacifista norvegese preferisce il disegno di un discorso multifattoriale (tra corpo, linguaggio-cultura, struttura socio-economica, e mente) che sin dalla prima infanzia utilizzi strutture sociali orizzontali e che rendano la cultura senza ripidi gradienti Io-Altro e quindi più inclusiva.

A me sembra necessario per noi maschi, nell’analisi sia della violenza maschile (di cui non mi ritengo esente come ho spiegato qui) e della guerra sia dello sviluppo delle armi, in particolare quelle nucleari, approfondire il legame tra violenza, nostra sessualità e la guerra. Nella direzione di una riduzione sostanziale della violenza diretta e di conseguenza anche di quelle strutturali e culturale, con grande benefico di tutti/e.

Mi si potrebbe giustamente obiettare che queste ipotetiche soluzioni valgono solo nel medio-lungo periodo, mentre oggi ci sono da affrontare la violenza diretta maschile che si attua nelle guerre di oggi e contro le donne. Per tentare arginare la violenza diretta degli uomini contro donne occorrerebbe forse che gli uomini, associati ma anche individualmente, cominciassero a sanzionare pubblicamente questi atti soprattutto nella vita quotidiana, e non solo con appelli, rompendo così la solidarietà maschile, implicita o esplicita.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2023)

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