23 Aprile 2020

Metafora della guerra e linguaggio della cura

di Umberto Varischio


Da quando la pandemia ha raggiunto la sua fase critica e si è cominciato a narrare e commentare il suo decorso, si è insinuata, tra i miei molti pensieri dedicati alla gestione di questa quotidianità alterata, una domanda ricorrente e insistente: perché per descrivere e raccontare la pandemia si è scelto di utilizzare la metafora della guerra e perché non si è utilizzato invece un linguaggio più vicino alla realtà della stessa, quindi un linguaggio della cura?

Ho letto in queste settimane diversi commenti, in particolare quello di Annamaria Testa, “Smettiamo di dire che è una guerra”, per Internazionale. Ma sono stato particolarmente colpito da due interventi di Guido Dotti, monaco della Comunità di Bose, il primo apparso sul suo blog e sul sito delle Acli di Bergamo con il titolo “Siamo in cura, non in guerra”, l’altro la lunga conversazione avuta dallo stesso autore nel corso della puntata di sabato 11 aprile di “Uomini e profeti” di Rai Radio Tre.

È innegabile che il linguaggio di diversi operatori della sanità, che sono a stretto contatto con questa malattia – e almeno per quanto viene raccontato da gran parte dei mezzi d’informazione – parla la lingua della guerra. Ma siamo sicuri che la maggioranza di loro usi questo linguaggio? Sono solo una minoranza coloro che, quando si occupano di una malata di Covid-19, pensano a come farla respirare e non a sconfiggere il virus? Dotti (e altre/i), riferendosi a conoscenze dirette, pongono dei dubbi, criticando anche la retorica bellica che questa impostazione porta con sé.

Riflettendo su questi interventi critici, mi chiedo cosa ci sia di male a descrivere la malattia con il linguaggio della cura, che cosa ci si perda a non utilizzarlo. Non penso che gli operatori della sanità possano sentirsi offesi o sminuiti a sentir usare per il loro lavoro termini come generosità, abnegazione, attenzione, sguardi, sorrisi, gesti, solidarietà, empatia, vicinanza emotiva, tutte cose che il personale sanitario che opera sul Covid-19 ha in abbondanza. Perché non usare il linguaggio delle relazioni e della cura in una situazione in cui la relazione è fondamentale?

Chi conosce la vera guerra e opera nell’ambito della cura, come gli operatori sanitari di Emergency, fa molta attenzione a usare metafore di guerra, perché sa, per esperienza, che la guerra causa quello che poi debbono curare tutti i giorni.

La metafora della guerra mi fa venire in mente, oltre ai morti, ai feriti e ai traumatizzati, disciplinamento di corpi e di menti, irreggimentazione, unione nazionale (talvolta anche sacra), militarizzazione di ogni ambito sociale; quello che sta succedendo in queste lunghe settimane.

La metafora porta a vedere come un nemico (di guerra, un traditore, un vigliacco) chi fa una passeggiata pur mantenendo le distanze, o chi si fa una corsa, mentre si tende a sorvolare sulle centinaia di migliaia di donne e di uomini che sono obbligate a recarsi al lavoro, in parte non piccola per produrre per settori che non sono essenziali per la riproduzione. Disciplinati, irreggimentati anche dalla paura di perdere il posto di lavoro. E senza che sia valutato il contributo, involontario, che chi è obbligato ad andare al lavoro – per esempio per produrre armi o anche solo per “non perdere il treno della ripresa” –   da alla diffusione del contagio.

Siamo qui nella stessa logica economica che governa il funzionamento delle RSA e delle case di cura, dove migliaia di anziane/i e di disabili sono morti o malati gravemente, trattati da residuali perché non più produttivi e quindi “sacrificabili” (al di là di scelte di superficialità e incapacità).

C’era chi diceva che la politica è la continuazione della guerra con altre armi, ma forse lo è anche l’economia.

La rete è indubbiamente veloce nel mutare impostazione, e lo è anche la macchina delle informazioni. La metafora della guerra, in questi ultimi giorni, sta perdendo terreno in favore di un linguaggio pervasivo che ha il suo baricentro nell’economia ma, purtroppo, con le stesse logiche di quella della guerra.


(www.libreriadelledonne.it, 22 aprile 2020)

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