17 Settembre 2020

Sotto il cielo del cinema

di Paola Mammani


Nell’ultima settimana di agosto abbiamo appreso della decisione di non assegnare più premi al miglior attore e alla migliore attrice, al festival del cinema di Berlino. I curatori hanno detto: Non separare più i premi nella professione di attore secondo il genere sessuale è un segnale verso una maggiore consapevolezza di genere nell’industria cinematografica. Altri hanno commentato: Un segnale di sensibilità e maggiore consapevolezza che abbraccia uno dei temi più dibattuti in ambito LGBTQ. E abbiamo appreso che la questione è stata più volte sollevata dall’attrice Kate Dillon della serie Orange is the new black che non riconoscendosi in un genere binario, ha pubblicamente chiesto che sia eliminata la distinzione tra uomo e donna.

Dunque la motivazione sarebbe che poiché vi sono alcuni/alcune che non vogliono essere definite né donne né uomini, e affermano di essere altro, un terzo, un quarto sesso/genere, un non sesso, eccetera, è meglio non usare più le espressioni miglior attore, migliore attrice. E sia. In questa specie di idioletto universale, mi ci metto anch’io e dico che per me il nuovo corso indica, semplicemente, che si intende premiare la bravura più grande, il meglio. Quante volte alcune di noi hanno bisticciato con la lingua, con il maschile e il femminile grammaticale, se intendevano affermare, per esempio, che Elsa Morante è la più grande, non solo delle scrittrici, ma la più grande fra tutti, scrittori e scrittrici, del secondo novecento italiano? Da Berlino, dalla stampa, viene una mezza soluzione linguistica: esaltare l’abilità, la funzione, la capacità attoriale, in questo caso, e vinca chi fa meglio!

Una specie di controprova della mia versione dei fatti, che equivale a dire che la grandezza femminile è sempre più visibile pubblicamente e non ha bisogno di una specifica quota né di specifica nominazione per emergere, viene dal festival del cinema di Venezia.

Presenza molto numerosa di donne, con prestazioni di grande qualità, dicono, sia delle attrici, sia delle registe, queste ultime anche in maggioranza numerica rispetto agli uomini: proprio una di loro, poi, risultata vincitrice del Leone di Venezia. Insomma, la coppa Volpi a Favino potrebbe essere stata attribuita solo perché era previsto un premio per la migliore interpretazione maschile. E allora, perché non regolarsi come a Berlino, e assegnare due coppe Volpi, ex equo, a due donne?

Mentre da questa parte dell’Atlantico, dunque, sembra aperta nel cinema la contesa per l’attribuzione di senso ai termini uomo, donna, sesso e genere, senza che le donne abbiano niente da perdere, anzi, parrebbe, perfino da guadagnare, da Hollywood arriva la definizione delle donne come categoria da tutelare nella produzione cinematografica. Assieme alle minoranze etniche, alle persone LGBT e a quelle disabili, dovrebbero raggiungere la quota del 30% fra le maestranze, perché un film possa concorrere all’Oscar. Condizioni simili poste anche per la scelta di ruoli attoriali e di altre figure artistiche e professionali rilevanti.

Qualcuna nota che nel cinema americano è già così, si sta solo formalizzando quanto è accaduto e accade. Dall’introduzione di ruoli di rilievo per i neri a metà dei Sessanta, ai tanti amori omo e storie trans, con immancabile gpa a seguito, che oggi spuntano nelle serie tv, spesso senza alcun nesso rilevante con la storia complessiva. È il loro modo di lottare contro le discriminazioni.

È grottesco? Rasenta il ridicolo che le donne, quella metà dell’umanità senza la quale non esisterebbe l’umanità intera, siano comprese fra le categorie da tutelare e per di più fino al limite del 30%?

Grande è la confusione sotto il cielo. Sembra proprio così. La situazione, quindi, è eccellente, Confucio. Anche questo potrebbe essere vero: contorsioni della realtà e del linguaggio, di fronte alla presenza incalzante delle donne. 


(www.libreriadelledonne.it, 17 settembre 2020)

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