4 Dicembre 2025

Un punto di vista maschile sulla ricerca “Perché non accada” di ActionAid

di Umberto Varischio


“Perché non accada”, la ricerca (qui) commissionata da ActionAid su «come si percepiscono in Italia la violenza e le diseguaglianze di genere e come prevenirle» mette in luce una situazione italiana in cui la violenza maschile nei confronti delle donne rappresenta il riflesso di una cultura maschile che non è stata superata, ma che continua a influenzare profondamente la nostra vita quotidiana.

Dal mio punto di vista, questa indagine solleva almeno due questioni: il modello di mascolinità che ha contribuito a formare la mia persona, e la responsabilità che ho nella modifica delle dinamiche tra i sessi.

Una delle sezioni più importanti del rapporto, su cui desidero soffermarmi, riguarda la giustificazione della violenza: oltre il 20% degli uomini è convinto che sia giustificato esercitare controllo sulla propria partner, e circa il 13% trova accettabile la violenza fisica in alcune situazioni. La violenza economica è considerata accettabile da un uomo su tre, e lo è per quasi la metà dei maschi Millennials (la generazione composta da persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e la metà degli anni novanta) e per quelli della Gen Z (la generazione delle persone nate tra la seconda metà degli anni novanta del XX secolo e il 2010). Per uno su quattro la violenza verbale e quella psicologica sono ampiamente motivate da provocazioni e comportamenti “scorretti” delle donne. La maggioranza (55%) dei Millennials ritiene legittimo il controllo sulla partner, soprattutto in caso di tradimento o di mancata cura della casa e dei figli.

Questi dati non sono solo molto preoccupanti: evidenziano come la mascolinità prevalente si basi ancora sul diritto (o presunto tale) di esercitare potere, controllo e punizione. Dati come questi dovrebbero spingere noi uomini verso un cambiamento profondo: non è sufficiente fermare la violenza, è necessario intervenire sul «senso del mio potere come uomo» all’interno della relazione.

Questi dati mi pongono e ci pongono dinanzi a un bivio: posso credere che “non appartengo a quelli che giustificano la violenza”, oppure posso interrogarmi su quale modello relazionale stia contribuendo a mantenere. La violenza rappresenta manifestamente il risultato di norme non evidenti: se risulta ancora accettabile che un uomo possa “tenere sotto controllo” o che certi comportamenti femminili “giustifichino” una reazione violenta, è perché la differenza di sesso è stata vista come una gerarchia piuttosto che come una libertà.

Il rapporto esamina anche i carichi di cura: mentre le donne si occupano fino all’80% delle faccende domestiche in alcune generazioni, il coinvolgimento degli uomini è ancora molto basso. Questa disparità non riguarda solo il carico di lavoro: rappresenta una “ferita” nelle relazioni tra i sessi. La cura non dovrebbe esser solo un “compito femminile”, ma un aspetto completamente umano. Perché quindi la mascolinità non può abbracciare senza riserve la responsabilità affettiva e domestica, la vulnerabilità e il tempo dedicato all’altro senza partire da una posizione di potere?

Gli elementi più interessanti della ricerca riguardano la necessità di spingere gli uomini a superare la mentalità del “per fortuna che lo faccio” o del “faccio quel che posso” e di adottare invece una logica di collaborazione. Non come un favore, né come un’“aggiunta personale”, ma come una parte integrante della relazione. Non possiamo più definirla “partecipazione” marginale e condizionata: è corresponsabilità. Quando in casa cucino o faccio la polvere non è “un aiuto”, un “compito”, qualcosa che faccio perché “è giusto ideologicamente”, ma un fatto di cura verso di me e la mia compagna. Spetta agli uomini il compito di scuotere questo schema, non solo nelle sfere personali, ma anche in ambito politico, professionale.

Un altro aspetto del rapporto è la proposta di passare dalla sensibilizzazione occasionale alla prevenzione primaria: un programma che intervenga prima che si manifesti la violenza, affrontando le cause, come stereotipi, norme quotidiane, ruoli e dinamiche di potere. Ciò significa che la differenza fra i sessi non deve essere ridotta a una semplice uguaglianza formale, ma deve essere riconosciuta come diversità nei desideri, nei corpi e nelle relazioni, da cui si deve poi sviluppare una nuova cultura della relazionalità.

In qualità di uomo, se desidero contribuire a questo cambiamento, devo accettare che la prevenzione non è solo una questione “femminile” o “un compito delle politiche”. È soprattutto una mia responsabilità. È il mio corpo, la mia sessualità, il mio modo di stabilire legami che devono evolversi. Se la cultura della violenza è profondamente radicata nella normalità del controllo maschile, allora la cultura della libertà deve essere edificata su una differenza pienamente accettata. Il rapporto indica che le donne non eterosessuali, le persone con disabilità e le nuove generazioni comprendono meglio queste dinamiche e partecipano in modo più attivo. Questo ci mostra che il cambiamento è realizzabile, ma tuttora molti uomini non vi sono ancora completamente coinvolti.

In conclusione, “Perché non accada” è un appello a modificare non solo le istituzioni, ma anche i modelli relazionali e simbolici che consentono la persistenza della violenza maschile. Dal mio punto di vista di uomo la sfida è sia personale sia collettiva: diventare un uomo che non ha bisogno di dominare per sentirsi maschio, ma che sceglie la differenza come strumento di dialogo, la vulnerabilità come forma di forza e la cura come modo di condividere il potere.

Un cambiamento della mascolinità dove non si tratti più di una virilità basata sul dominio, ma di una virilità che si fonda sulla responsabilità. Trovo sorprendente che i giovani uomini manifestino ancora una maggiore tolleranza verso le giustificazioni della violenza, il che indica che l’impegno maschile per il cambiamento risulta ancora inadeguato. È giunto quindi il momento per gli uomini di partecipare alla prevenzione, non come “alleati esterni”, ma come attori principali del cambiamento che desiderano rappresentare.

In primo luogo con un lavoro su noi stessi, individuale e anche di gruppo, che preveda la rottura quotidiana con la complicità maschile negli ambiti pubblici e privati e un rapporto stretto e costante con il femminismo.


(www.libreriadelledonne.it, 4 dicembre 2025)

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