13 Marzo 2014
repubblica.it

Corrado Levi si racconta: “Noi, gay quarant’anni dopo”

di  Vera Schiavazzi

 

Architetto, docente, artista, collezionista, Corrado Levi, torinese con radici anche a Milano e a New York, è stato tra i primi a avvicinarsi al Fuori!, a sua volta il primo tra i movimenti di liberazione omosessuale nati in Italia. “Quel movimento, quelle riunioni, quella presa di coscienza sono stati l’evento più importante della mia vita, il punto di svolta. Per questo oggi, a distanza di più di quarant’anni, non mi sento solo: dentro di noi è rimasta quella libertà”.
Per un antico vezzo, Levi preferisce non dire la sua età, che, comunque, è alquanto superiore ai 60 indicati dal progetto del gruppo torinese come la soglia oltre alla quale la popolazione glbt potrebbe avere bisogno di aiuto. La ragione è semplice: quella di Levi e dei suoi coetanei è la prima generazione di omosessuali ad aver tradotto in impegno politico la propria vita privata, abbandonando mogli e mariti (quando c’erano) e famiglie “di copertura” fino a quel momento consuete nell’Italia del dopoguerra. Una generazione che, come racconta proprio Levi, perlopiù ha scelto di non vivere in coppia, o, quando l’ha fatto, non ha potuto ufficializzare un legame che ancora oggi non viene riconosciuto.
Essere gay, o lesbica, o transessuale, porta con sé una vecchiaia infelice? O anche soltanto solitaria?
“Non posso rispondere in generale. Ma terrei distinti i due problemi. Personalmente non mi sento solo anche se la penso come Paolo Poli. Dormire tutte le notti con la stessa persona mi è sempre sembrato di una noia mortale. Così, ho fatto coppia fissa soltanto due volte nella mia vita, e non è mai durata molto più di un anno. E anche ora che non ho più tanta voglia di incontri amorosi, non mi sento solo affatto: quelle antiche amicizie nate negli anni del Fuori! sono rimaste, ma soprattutto è rimasta la libertà, la coscienza di avere combattuto una battaglia decisiva, per noi e per gli altri”.
Com’era la vita “prima” del Fuori!?
“Una buona vita, almeno per me, che quando il movimento è nato ero già a metà del cammino, avevo moglie e due figli e insegnavo architettura. Ma anche una vita non del tutto libera, dove il timore e l’ipocrisia erano sempre in agguato. Non potrò mai dimenticare quella prima riunione nell’ingresso di casa di Fernanda Pivano: sentii parlare Mario Mieli, e per me fu la rivoluzione. Personale e politica. Un’emozione grandissima, la presa di coscienza che non eravamo soli e che raccontare le nostre vite, così come in quegli anni facevano le femministe, avrebbe potuto cambiare quelle degli altri”.
E dopo?
“Anche in questo caso sono stato fortunato. Dopo il mio coming out, i miei figli, ancora bambini, mi hanno espresso solidarietà, così come nel tempo ha fatto anche la loro madre. Dichiararmi omosessuale ha cambiato, in meglio, il mio modo di insegnare, e i colleghi docenti mi hanno incoraggiato a non avere paura di dichiararlo anche agli studenti”.
Lei è uno dei protagonisti del film documentario appena realizzato da Gianni Amelio, “Felice chi è diverso”. Un altro momento di liberazione?
“Non per me, che mi ero già dichiarato molti anni fa. Ma, comunque, un film importante, che ci ha permesso di misurare quali e quante siano le diversità anche all’interno della comunità omosessuale. Si ascoltano posizioni vicine a quelle pasoliniane, come Ciro Cascina, che rimpiange la vita omosessuale prima della globalizzazione, o altre come la mia, che d’accordo con Filippo de Pisis ritengo che il corpo parli un linguaggio suo proprio, diverso da quello della mente. Ho avuto un giovane innamorato che era fascista, e se quasi se ne scusava con me, ho conosciuto un prete gay che voleva ‘guarire’ e che invece ho invitato a lavorare su di sé. Non è detto che tutti debbano rimpiangere la coppia, la famiglia, i figli…”.
Non è detto. Ma è un fatto che dopo gli anni ruggenti del Fuori! molti si sono ritirati a vita privata e hanno cercato di farsela, una famiglia. E oggi sono vecchi, e a rischio solitudine…
“Me ne rendo conto. Io non ho mai voluto farlo, ma considero scandaloso che non sia possibile per i gay sposarsi, è un segno di quanto spessa sia la crosta cattolica e perbenista che ancora ricopre l’Italia. Io sento di non subire alcuna forma di discriminazione, viaggio, dipingo, qualche volta mi impegno ancora in politica. Ma quando leggo che un ragazzo di non ancora vent’anni si uccide perché omosessuale ne resto sconvolto. E capisco, e che non è giusto, per esempio, non poter lasciare i propri beni al compagno di una vita. E allora ben venga il progetto di Lambda”.

(www.repubblica.it, 13 marzo 2014)

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