16 Dicembre 2015
Corriere della sera

Cosa vuol dire desiderare un figlio nell’epoca della sterilità

di Dacia Maraini

 

Da anni non si assisteva a una discussione così radicale e impetuosa fra donne che sono abituate a ragionare in termini storici ed etici sul destino del proprio corpo. Ecco la parola chiave, DESTINO: si diventa madri per destino o per scelta? È la stessa domanda chiave su cui si è ragionato e discusso, ma civilmente, al tempo della legalizzazione dell’aborto. C’è chi crede e rivendica l’idea che la maternità sia un fatto prima di tutto mistico, una sorte spettante per fatalità naturale al corpo femminile, ma (spesso paradossalmente) guidata e sancita da leggi decise in maggioranza da uomini. C’è invece chi sostiene che la maternità, come la paternità, sono creazioni prima di tutto culturali, modi di costruire la vita che mutano secondo i grandi mutamenti della storia.

Sono state coraggiose le donne di «Se non ora quando-Libere» che per prime hanno lanciato il sasso nel silenzio del Paese. Troppo poco si discute sulle grandi questioni legate alla gestazione: cosa vuol dire desiderare un figlio? È un fatto egoistico o un istinto potente che nasce sì dal bisogno della continuazione della specie ma viene poi interpretato e vissuto in ogni epoca con spirito diverso? E il desiderio di maternità è un fatto esclusivamente femminile o non riguarda anche gli uomini che spesso hanno censurato e represso la struggente e bellissima ambizione alla riproduzione? E ancora: in epoca di sterilità crescente, fino a che punto è lecito covare nel ventre un figlio per altri? Che senso ha nutrire con le proprie linfe piu segrete un corpicino nuovo su richiesta? Come può essere giudicata una donna prolifica che, magari per guadagnare dei soldi, offre a una coppia che non può averne, il proprio corpo materno?

Cos’è che indigna e infastidisce di più in questo nuovo modo di intendere la maternità? Direi sopratutto l’aspetto commerciale. Come si può comprare un figlio? E come si può venderlo, cancellando l’idea antichissima della naturale proprietà materna? Perfino la Madonna che, secondo la narrazione cattolica, ha concepito un figlio per conto terzi — ovvero lo Spirito Santo — l’ha però donato, da accudire, con meravigliosa fiducia e rispetto, al proprio compagno di vita.

In qualche modo la discussione di oggi ricalca le infinite dispute e controversie sorte al tempo della legalizzazione dell’aborto. Ho scritto a suo tempo un libro per spiegare la mia posizione: favorevole alla legalizzazione per togliere la pratica dalla clandestinità, ma contraria a farne una bandiera. L’aborto non può essere una soluzione. Farlo uscire dal buio delle pratiche speculative, bene, ma pensare che sia l’unica risposta a una gravidanza non voluta, non mi convince: si tratta comunque di una violenza verso il nascituro e verso il corpo della donna. La sola alternativa non può che essere una maternità responsabile. Cosa che in parte è avvenuta con la legalizzazione dell’aborto: è stato importantissimo rendere consapevole collettivamente il paese dell’esistenza della pratica, violenta, pericolosa legata all’attività di tanti medici speculatori. Tutti sapevano ma, prima della legge, era una piaga nascosta e tollerata, dopo la legge è diventata una consapevolezza civile.

Oggi ci troviamo di fronte a una questione contraria e opposta: la sterilità sta aumentando, molte coppie vorrebbero un figlio ma non riescono a farlo e allora o adottano un bambino — ma sappiamo quanto è lungo e difficile e tormentoso il processo dell’adozione — oppure cercano una donna prolifica che, liberamente scelga di accogliere il seme dell’uomo e dare alla luce un figlio da donare.

La divisione dei punti di vista all’interno del mondo femminile più consapevole prova che la questione è scivolosa e non facilmente risolvibile. Fino a che punto la maternità è un evento etico oltre che naturale e quando le due cose possono essere separate per ragionamento? Dove comincia la costruzione di un figlio e quali sono i limiti che vogliamo imporci? Mettere a disposizione il proprio corpo per aiutare chi è sterile e desidera un bambino è solo un patto commerciale o può essere anche un modo di condividere le gioie della maternità? Perché troviamo accettabile la donazione del seme paterno e non la donazione di una gravidanza femminile? Non mi avventurerei nello scialo dei termini inglesi che trovo fuorvianti: la gente si confonde fra stepchild adoption, surrogacy, ecc.

Forse non è un caso che la questione sia venuta fuori nel momento in cui si sta per approvare in Parlamento una legge che sancisce gli uguali diritti fra coppie eterosessuali e omosessuali. La questione diventa etica nel momento in cui si tocca la famiglia, o l’idea tradizionale della famiglia, che purtroppo è diventato, per statistica il luogo più pericoloso per le donne e i bambini. Ma c’è chi si oppone con tutte le forze a modificare la nozione abituale di famiglia, chi ha paura che introducendo nuovi modi di convivenza sanciti dalla legge, l’intero sistema di valori esploda e vada in pezzi, lasciando solo macerie sentimentali.

«Focalizzare sulle adozioni gay non è giusto, anzi rischia di fermare una legge civile. In realtà la maternità surrogata è richiesta e praticata, per il 99% dei casi, solo da coppie eterosessuali sterili» scrive Paola Concia. Monica Cirinnà e Ivan Scalfarotto sostengono che una cosa è protestare contro questa pratica in un Paese come la Francia dove esiste già il matrimonio egualitario e l’adozione è aperta alle coppie gay e lesbiche. «La strategia è molto chiara — chiarisce Paola Concia —, si vuole polarizzare la contrarietà a una qualsivoglia legge sulle unioni civili concentrando su una questione che non riguarda la comunità omosessuale, ma tutta la società. Associare la Maternità surrogata alle unioni civili è un errore clamoroso».

Perfino il grande movimento «Se non ora quando», si è diviso su questo tema, con la civiltà e la lealtà a cui rimangono fedeli . Ma questo chiarisce ancora una volta quanto la questione sia complessa e «meriti tempo, prudenza, onestà intellettuale e confronto tra donne», come scrivono i seguaci di «Se non ora quando, factory»: «Se c’è una cosa che appare infinitamente più indegna per una donna della gestazioni per altri/e, è l’essere pensata da altre/i. Pensare per altre/i è un esercizio molto offensivo, che lede la dignità delle donne…».

Il dibattito si sta svolgendo con serenità e rispetto, fra persone stimabili come Chiara Saraceno, Luisa Muraro, Lidia Ravera. Persone che si sono confrontate portando in campo idee e non insulti o questioni di appartenenza. «Se il patto avviene fra persone libere e consapevoli, e non porta nessuna forma di violenza o sfruttamento», perché non dovrebbe essere lecito, scrive anche un uomo che su queste cose si è interrogato, Emanuele Trevi. D’altra parte Luisa Muraro afferma che «non esiste il diritto ad avere figli ad ogni costo. Chi lo cerca, entra in un mercato in cui la donna è messa sotto contratto con clausole varie dettate dal compratore». Qui si mette in discussione, e con molte ragioni storiche, la libertà femminile. Fino a che punto è libera una donna che vende se stessa su un marciapiede, anche se adulta e consapevole? Fino a che punto è autonoma una donna che presta il suo utero a pagamento?

Per finire vorrei chiedere scusa per avere accettato di firmare con troppa fretta e senza avere ascoltato tutte le voci e pensato alle conseguenze di una presa di posizione pubblica, l’appello di «Se non ora quando-Libere». Non per mancanza di stima: sono sempre stata vicina e partecipe alle scelte del movimento — ma perché non mi sento di dichiarare con tanta certezza che il problema non esiste e che tutto si possa risolvere con la imposizione di una legge restrittiva.

La questione è complessa e vorrei ascoltare ancora piu voci di donne e di uomini che si confrontino con sincerità e onestà sulla questione, per capire meglio i cambiamenti in atto. A volte le nostre idee si trovano a disagio nelle grandi piazze del Paese. Ci perdiamo di fronte ai cambiamenti che sono rapidi e a volte anche contraddittori e inquietanti. Ma negare la realtà è sempre un errore che si finisce per pagare caro.

 

(Corriere della sera, 16 dicembre 2015)

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