di Giordana Masotto
Qualche spunto per tracciare un bilancio e per ripartire.
Efficacia/inefficacia
Sui guadagni personali siamo tutte d’accordo. Li sentiamo e li viviamo sulla nostra pelle. Il pensiero generato dal femminismo radicale, riconoscendo il massimo valore politico al partire da sé, schiude orizzonti impensati, che ci danno forza e ci consentono di stare nel mondo senza tradire noi stesse. La relazione tra donne – quando viene gestita con consapevolezza politica – ci mette in grado di riconoscere la disparità e dunque ci mette in grado di dare e ricevere valore. Tutto ciò è gioioso e confortevole. Eccitante (non proprio uno “stato di eccitazione permanente”, ma la possibilità di accedere a un di più di energia radicata nel sé). È un percorso imprescindibile, che si sostanzia nell’autocoscienza: a Paestum i laboratori su sessualità, autodeterminazione, maternità (tra gli altri) l’hanno ribadito, si sentiva dall’entusiasmo delle partecipanti. Le cose diventano più problematiche se guardiamo la scena pubblica, là dove “la finzione crea realtà” (come dice Luisa Muraro). Qui dobbiamo registrare una desolante impenetrabilità.
Su questo punto nessuna ha ad oggi la soluzione in mano. Anche se c’è chi, presa dall’ansia e pressata dall’orrore dell’attualità (Lampedusa e femminicidio), spaccia per risolutive (catartiche?) pratiche pur legittime, come la raccolta di firme. Legittime, ma che non affrontano il problema di fondo. Che è: come far agire e rendere visibile il pensiero e la pratica del femminismo radicale nella scena pubblica. Letizia Paolozzi l’ha detto così: voglio vedere il segno che ci portano le donne nei luoghi politici che pure ci piacciono, nelle battaglie che pure ci interessano. Ma questo segno – che volendo parlar difficile sarebbe “cambiare il simbolico” – si fa gran fatica a vederlo. Se non riesco a metterci quel segno, non mi basta neppure impegnarmi in “frequenti incursioni” (Fulvia Bandoli) in territori non immediatamente femministi, che pure mi premono e che sono di “esigenza pressante”.
In un incontro nazionale del femminismo voglio proprio andare insieme a caccia di quel segno, in tutti i territori possibili che ci dettano i nostri interessi. Questo è stato il passo avanti di Paestum 2012 che prendeva di petto la “voglia di esserci e contare” se ne faceva carico, la interrogava.
Quest’anno invece l’articolazione dei laboratori esprimeva un’altra priorità: intendeva, se ho ben capito, mettere alla prova del presente quel generativo partire da sé in tutti i campi dell’esperienza, dai più intimi ai più pubblici. Questa è stata la sua ricchezza.
Ma l’esigenza di cui sopra permane e ha continuato a lavorare e a emergere, soprattutto nelle plenarie. Chi dunque si fa abbagliare da quella pessima sequenza finale dell’incontro come fosse l’epifania di chissaché commette in un sol colpo due errori: intralcia il percorso di comune ricerca di efficacia pubblica nel segno della differenza, e contemporaneamente oscura la articolata ricchezza di questo Paestum.
Le regine del micro
Tra l’uno e l’altro territorio delineato sopra – il personale e il pubblico – ce n’è un altro in cui siamo regine: le micropratiche o microsoluzioni. E “micro” non vuole essere riduttivo. Indica piuttosto una misura in cui riusciamo ad agire controllando le conseguenze. Si tratta di territori prossimi alla nostra esperienza quotidiana di vita/lavoro/politica in cui la contaminazione appare possibile, la forza si esprime, il cambiamento a portata. I laboratori sulla cura, sulla scuola, sul welfare, da quanto ho capito, hanno dato voce a queste pratiche incarnate. Anche il laboratorio lavoro economia, cui ho partecipato, ha raccontato di questa grande capacità delle donne di tenere vivo e aperto il movimento tra libertà e necessità, di saper costruire anche sulle macerie e nella penuria, di occupare lo spazio, di dire dei no, di conservare la dignità, di prendere forza da altre donne, di contrastare lo scippo di relazioni nella vita/lavori di oggi, di inventare politica.
Vogliamo andare oltre, ma è necessario tenere i piedi ben piantati in questa forza che c’è. Riconoscendo che non c’è “la pratica” risolutiva e universale, ma tante pratiche incarnate. Pratiche parziali, pratiche plurali da tenere in tensione tra di loro.
Conflitto e autorità
Ma secondo me un problema rimane. Perché i problemi sono macro e la nostra voglia di cambiamento anche: nientemeno che un cambio di civiltà. Per fare un passo avanti su questo problematico crinale su cui camminiamo, il nodo del conflitto mi pare centrale. Penso infatti che quel segno della differenza che vogliamo portare in ogni ambito non possa che essere un segno di rottura.
Anche nel laboratorio lavoro – economia è emerso con chiarezza. Ma i conflitti non sono facili: spesso paiono inciampare in un irrefrenabile impulso ad “anticipare” obiezioni e contrasti: come se non potessimo esimerci dal trovare/incarnare la soluzione prima ancora di aver dato spazio al confronto.
Su questo punto Antonella Picchio ha tagliato corto: nelle attuali drammatiche condizioni di vita/lavoro il conflitto individuale è insostenibile, ti succhia la vita e ti toglie energie. E ha concluso: il necessario conflitto su questi temi e nella prospettiva del “primum vivere” non può che essere collettivo. Alcune osservano anche che nelle attuali condizioni di lavoro a volte ti manca proprio l’interlocutore con cui aprire il conflitto. Io ripenso alla forza di contrattazione che a volte sanno scatenare le lavoratrici madri. Ma mi dico subito che non possiamo e non vogliamo trasformarci tutte in madri coraggio. La presa di coscienza ha dato e dà molta forza ma non pretende di trasformarci tutte in eroine.
Ci vuole un’invenzione, un passo avanti: uno di questi è creare spazi aperti che esprimano un’autorità condivisa su cui fare leva per agire conflitti. A Milano l’esperienza dell’Agorà del lavoro va in questa direzione: infatti è un luogo pubblico, aperto a uomini e donne ma in cui si riconosce l’autorità del punto di vista delle donne sul lavoro; è espressione di diversi femminismi radicali milanesi oltre che di donne singole, studiose e sindacaliste. Molte già ci hanno detto che prendono forza dall’Agorà. E quest’anno vogliamo metterci più in gioco in città. È un esperimento in evoluzione, non facile. È una strada stretta, ma può rappresentare un passaggio utile in questa ricerca di efficacia e di radicalità in cui siamo impegnate.