25 Settembre 2016
metro

Così in Messico fermeremo la strage di donne

di Paola Rizzi

CITTÀ DEL MESSICO. Nel 2010 in una cittadina dello Stato del Messico (Edoméx – “Estado de México” – uno dei 31 stati che compongono l’omonimo Stato federale) la 28enne Mariana Lima Buendía fu trovata morta nella casa che divideva con il suo compagno, un poliziotto che la riempiva di botte e a cui tra le altre cose piaceva terrorizzarla infilandole la canna della pistola in bocca. Aveva appena detto a sua madre che intendeva andarsene e denunciare il suo aguzzino. Accanto al suo corpo furono trovate le valigie. Ma la sua morte venne subito archiviata come suicidio. La madre Irinea, donna semplice e coraggiosissima, non si è arresa, si è messa a studiare diritto e, aiutata dalle ong femministe e appellandosi alle nuove leggi messicane sulla violenza di genere, nel 2015 è riuscita a far riaprire il caso con l’imputazione di femminicidio. Il presunto assassino è attualmente in galera. A seguire la vicenda Ana Yeli Pérez Garrido, 32 anni, avvocata dell’Observatorio Nacional Ciudadano de Feminicidio, una delle decine di agguerritissime associazioni di avvocate, giuriste, sociologhe e politiche, che da decenni combattono senza tregua per salvare la vita alle donne messicane.

 

I numeri della strage
In Italia nel 2015 sono state uccise 468 persone, uno dei tassi di omicidi più bassi al mondo; poco meno del 30 per cento, 128, erano donne. È il nostro primato: in un paese in cui i morti ammazzati calano drasticamente, il numero di donne uccise resta costante e cresce in percentuale. In Messico la percentuale di femminicidi è “solo” del 10%. Ma in termini assoluti si tratta di una strage: nel 2015 sono state uccise 2352 messicane, una media di sette donne al giorno. In un paese in cui nello stesso anno ci sono stati 20 mila morti, numeri da guerra civile per l’escalation dello scontro tra cartelli dei narcos e forze armate, su cui ieri è intervenuto anche il Papa, può sembrare poca cosa. «Ma la battaglia principale è quella contro la sottovalutazione e l’impunità dei delitti contro le donne» ci spiega Ana. Una lotta di avanguardia con effetti molto concreti: in Messico “femminicidio” non è solo un brutto neologismo da usare nel dibattito politico o sui giornali. Dal 2011 è anche una precisa fattispecie di reato, con aggravanti pesantissime, inserita nel codice penale.

 

Ciudad Juárez

«Tutto è iniziato con gli eccidi a Ciudad Juárez, centinaia di giovani donne rapite, violentate, torturate e uccise a partire dagli anni ’90 nella totale impunità degli assassini. Prima si sono mobilitate le madri chiedendo giustizia, poi avvocate, giuriste e politiche». Una battaglia che ha portato nel 2009 alla condanna del Messico da parte della Corte interamericana dei diritti umani per la negligenza nella tutela della vita delle donne e ad una campagna per introdurre nella legislazione la parola femminicidio.
Nel contesto messicano la violenza domestica, il 30% dei casi, si unisce alla tratta e all’utilizzo delle donne come bottino nella guerra tra i narcos. «Per questo definire il reato è stato molto complesso – spiega Ana – ma l’obiettivo era determinare un’attenzione e una presa di coscienza della società e delle istituzioni su una realtà sottovalutata e negata». Secondo l’articolo 325 del codice penale federale introdotto dal 2011 (operativo in tutti gli stati tranne, paradossalmente, in quello di Ciudad Juárez, Chihuahua) il reato di femminicidio si configura come “l’uccisione di una donna per ragioni di genere”, ossia per il fatto di essere donna. Ragioni che sussistono quando si verifica almeno una di queste circostanze: il corpo presenta lesioni infamanti e degradanti, come mutilazioni e bruciature, ci sono segni di violenza sessuale, la vittima è stata segregata, c’è una relazione di intimità con il presunto assassino, il corpo è abbandonato sulla strada, esistono precedenti di violenza o molestie in famiglia, sul luogo di lavoro o studio tra la vittima e il presunto assassino.

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(metro, 25/9/2016)

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