17 Luglio 2014

«Credevo di essere troppo, invece ero io» (Ariane Mnouchkine)

di Marta Equi


Qualche tempo fa sono andata a sentire Ariane Mnouchkine che parlava al Piccolo Teatro di Milano in occasione dei 50 anni del Théâtre du Soleil, da lei fondato. Recentemente è anche uscito un libro sull’avventura della compagnia intitolato Un teatro attraversato dal mondo, di Silvia Bottiroli e Roberta Gandolfi (Titivillus Edizioni).

Non sono un’esperta eppure ascoltare e guardare questa donna è stato bellissimo e anche un po’ curioso, tanto che appena sono uscita ho sentito il bisogno di scrivere, per capire perché mi sono sentita attratta e abbandonata al tempo stesso da lei. Solo ora trovo il coraggio di condividere quello che ho scritto allora. Non entrerò nel merito dei suoi discorsi sul teatro per rispetto di chi ne sa; eppur mi pare di poterlo fare… come se quello che ha detto appartenesse a tutte e tutti noi, non a una disciplina.

 

Una donna robusta siede con agio di fronte a molte persone.

Non è imperiosa, non è particolarmente carismatica. Non è timida, nemmeno ritrosa. Non incarna del tutto quello che ti immagineresti da una grande artista. La cifra della sua presenza di fronte di noi è, appunto, l’agio. È come se il suo stare in relazione a persone con becchi aperti come uccellini affamati fosse assolutamente normale per lei. È come se andasse incontro a quello che le spetta.

Sta comoda nella sua seduta eppure non si gusta il riposo. È interessata alle domande, eppure non ne è davvero scalfita.

Mi pare che Ariane stia seduta in sé, ma con un giusto, preciso, conquistato, grado di osmosi verso l’esterno. E che lo stare seduta in sé sia anche esso stesso un atto giusto, preciso, conquistato.

I suoi occhi, il loro contorno maturo, mi dicono poca gioia, molta passione.

Senso di riposo meritato. Nel suo pretendere muto il suo posto sul palco vedo una specie di vecchia montagna che si è molto amata per piantare con soddisfazione le sue pendici esattamente dove devono stare.

Rifarei tutto da capo ma sarebbe solo più duro oggi, risponde a una domanda. Nei classici c’è già la contemporaneità ribatte alle sciocche domande dei tecnici. Devi leggerlo Shakespeare, ma davvero, davvero farlo tuo, non scriverne trattati. Come a dire: devi viverlo…

 

Fugacemente un barlume di stanchezza, esposizione alla fragilità, ma come può una montagna essere fragile. Sparisce il guizzo.

Chissà come deve essere stata da giovane. Mi pare di intravedere. Penso al suo cuore quando era piccola. La radicalità, amore, precisione del dire, noncuranza eppure cura che ho visto da dove derivano? Vediamo il risultato, ma il percorso? La conquista del suo stare è stato un divenire… avrà sofferto? Era sola?

Parla di un gruppo, dice noi, non usa quasi mai la prima persona singolare e quando lo fa subito si corregge: noi, noi. Parla di persone che la hanno vista… che hanno gioito e ballato quando è nata[1]

Eppure mi sembra davvero solo un fatto suo. Non dico egoismo, ma ricerca, credo.

Ora leggo il suo distacco come lo sguardo di chi ti aspetta, no, non è esatto, non ti aspetta, ti fissa e basta, al di qua della foresta. [2]

 

A un certo punto mi è parso di sentir dire credevo di essere troppo, invece ero io.

Ma forse qui è già non più lei che parla attraverso il mio francese insufficiente.


(wwww.libreriadelledonne.it, 17 luglio 2014)



[1] Si riferiva a Paolo Grassi, nel 1970 a Milano in occasione dello spettacolo “1789”.

[2] D’altra parte, Non si può insegnare tutto, no?

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