di Massimo Romeri
Laura Iamurri, “Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte in Italia”, da Quodlibet. La singolare avventura di una intellettuale anni sessanta che rifiutò ogni settorialità del sapere in nome di un esistenzialismo femminile
Il primo artista frequentato da Carla Lonzi è stato Pinot Gallizio. In un certo senso, è da questo primo incontro che l’attenzione della giovane allieva di Roberto Longhi si sposta dal fatto pittorico a quello umano. Come aveva imparato dal proprio maestro, la Lonzi vagliava l’opera d’arte non solo con il proprio sguardo, ma con la propria esperienza. L’iniziale consonanza con Longhi era però andata trasformandosi negli anni, fino a consumarsi in una vera e propria rottura, grazie a una crescita intellettuale complessa, a volte misteriosa perché vissuta tanto più internamente che pubblicamente, ma della quale si seguono ora le tappe in Un margine che sfugge Carla Lonzi e l’arte in Italia, 1955-1970, di Laura Iamurri (Quodlibet, pp. 264, euro 24,00).
Dalla seconda metà degli anni cinquanta il banco di prova di una critica d’arte da reinventare era passato attraverso la formulazione di una divulgazione storico-artistica massiccia, ma di qualità, in collane come i Maestri del colore o nelle trasmissioni radiofoniche come «L’Approdo». La Lonzi matura in quest’ambito, intessendo successivamente rapporti anche al di là del più stretto côté longhiano, tra Milano, Roma e, soprattutto, la Torino dell’art autre e della galleria Notizie.
Dalla fine del decennio, e in coincidenza con i primi incontri con gli artisti, la parola scritta della critica d’arte non si limita più solamente a rivelare dei fatti figurativi, ma si presta a un’indagine intima, millimetrica, delle tessiture emotive che originano da questi rapporti. In questo senso, la Lonzi cerca un vocabolario nuovo, alternativo alle espressioni ormai usurate, che superi la vulgata dell’informale per restituire l’impatto con opere sempre più prive di relazioni con la realtà visibile. Il mestiere imparato da Longhi si trasforma così gradualmente in qualcos’altro. L’empatia generata negli incontri è sempre più centrale, fino a diventare uno dei mezzi per spiegare prima l’autenticità e la singolarità di una ricerca creativa, poi le radici stesse della propria coscienza di critica, di donna e, infine, di individuo, perché «prima di riuscire a identificarmi in me stessa ho cercato di rispecchiarmi in chi sentivo migliori di altri».
«Autoritratto», 1969
Le pagine della Lonzi tentano sempre più di aderire al pensiero degli artisti, per accedere a ciò che di solito sfugge e che l’usuale indagine storico-critica non può trovare, cioè quella propensione spirituale che sta dietro la vocazione artistica. Così, come un lenzuolo, adagia il foglio bianco sul corpo dell’artista raccogliendone gli umori condensati in grumi di coscienza e sviluppati attraverso un costrutto che non generalizza mai: parteggiando per gli artisti, scopre qualcuno per cui l’identità è contemporaneamente un’attività. Il saggio della Iamurri accompagna lungo le tappe di questi cambiamenti, ne chiarisce il senso indagando testimonianze disparate, dalle lettere inedite all’amica Marisa Volpi all’analisi dei tempi e del montaggio di Autoritratto, il libro uscito nel 1969 che raccoglie i dialoghi registrati negli anni precedenti con gli artisti prediletti: Luciano Fabro, Lucio Fontana, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pietro Consagra, Carla Accardi, tra gli altri.
Il registratore a bobine è il mezzo con il quale la Lonzi re-inventa le interviste agli artisti: non è uno strumento scontato a metà degli anni sessanta. L’aveva usato Pasolini durante le riprese di Mamma Roma quando, nelle pause, «stanco morto, divorato dal sole» vi riversava «confidenze caotiche»; lo usavano Ernesto De Martino, Diego Carpitella e Roberto Leydi nelle loro inchieste etnografiche. Per la Lonzi è il dispositivo ideale per rendere testimonianza della sua interazione con gli artisti, dando spazio alla loro autenticità. Nella trascrizione mantiene scrupolosamente l’espressività orale con le pause, le incertezze, le ripetizioni, come nella riproduzione di un documento. Il filtro critico è annullato, almeno apparentemente.
Tra 1967 e 1968 la Lonzi è negli Stati Uniti. Qui, «sradicata e nomade», trascrive interviste già fatte, come quella a Fontana, e, ormai consapevole delle potenzialità di queste registrazioni, mette a fuoco l’impalcatura del suo libro che verterà su un montaggio di discorsi fatti in tempi e luoghi diversi, in una sorta di ipotetico convivio di artisti. Come dimostra la Iamurri, le premesse e le funzioni delle registrazioni sono mutate nel tempo. Dialoghi come quello con Mimmo Rotella, fissato su nastro a New York nella primavera del 1968, sono pensati subito come materiali utili alla tessitura di Autoritratto. In queste ultime registrazioni il privato e il pubblico coincidono sempre più e ci si interroga su alcuni temi, come l’erotismo, che saranno centrali negli anni successivi.
Come Santa Teresa di Lisieux
È nel rapporto con l’Accardi, poi con Fabro, che le gerarchie e le priorità della Lonzi si scompaginano definitivamente e la professione della critica d’arte lascia il passo ad altro: la conduzione degli affetti, quindi la trasformazione di sé, sono vissute come premesse necessarie a una rivoluzione autentica della società. La condizione dell’artista nella sua quotidianità, con i suoi pensieri, guai, soddisfazioni, legami sentimentali, diventa inscindibile dall’arte stessa che è strumento per scoperte interiori. Anche le illustrazioni di Autoritratto dicono qualcosa sul cambiamento. Le immagini scelte dalla Lonzi colgono momenti irripetibili, situazioni connotate in un tempo e in un luogo preciso: gli artisti al lavoro, le opere nel contesto espositivo, le inaugurazioni, i ritratti degli amici, dei famigliari, degli artisti da bambini, in un mosaico di esistenze in cui il confine tra vita personale e professionale è totalmente poroso.
Per la copertina di Autoritratto la Lonzi avrebbe voluto una fotografia di Santa Teresa di Lisieux nel ruolo di Giovanna d’Arco in catene, scattata durante una recita nel Carmelo di Lisieux nel 1895. La Lonzi vi si identificava pienamente: «era l’immagine esatta del mio autoritratto».
La storia della santa era tanto radicata nella memoria della critica: da ragazza, «nei momenti di crisi», ne rileggeva l’autobiografia per rintracciarvi «stati interiori per me naturali e che non ritrovavo altrove». Teresa si era annullata in una verità che riteneva assoluta, mentre la Lonzi cercava di imporre al mondo la propria visione, in simbiosi con coloro che più di tutti concretizzano il proprio valore individuale, gli artisti. All’epoca di Autoritratto Santa Teresa è anche una figura di donna, come dirà Paolini, in «perfetta sintonia con le attitudini» di una critica d’arte che tende a defilarsi, lasciando, sulla soglia del ritiro, la parola agli artisti. L’editore De Donato bocciò la proposta per la copertina come «una goffaggine tipicamente femminile» e impose un più riconoscibile Concetto spaziale di Fontana, ma un particolare del volto di Teresa di Lisieux, rielaborato in un’opera di Paolini, è tra le prime pagine del libro, a intervallare i pochi brani in cui la Lonzi parla di sé in prima persona. Poco oltre, c’è una fotografia della critica a tredici anni, nel collegio di Badia a Ripoli.
Nel 1970 la Lonzi abbandona la critica d’arte per dedicarsi interamente al femminismo. È una scelta grave, ma non improvvisa. Nel libro della Iamurri appare come l’atto finale di un processo incalzante, come la ricapitolazione di una serie di indizi che ne costellano la vita già dalla formazione. Disillusa, con un gesto di contestazione radicale lascia il «mestiere fasullo» – così lo aveva definito in Autoritratto – della critica d’arte, e «tutto finiva lì», nell’amara constatazione di essere stata, anche per gli artisti, «una spettatrice ideale», perché silente.
(il manifesto, 15 gennaio 2017)