31 Ottobre 2023
Pangea News

Che la forza sia con te. Viaggio a Leopoli, la città delle donne, tra guerra e normalità

di Matilde Moro


Leopoli è uno strano posto. Per arrivarci, ora che c’è la guerra, ci vuole poco meno di un giorno di viaggio: nel mio caso, un aereo Venezia-Vienna, poi Vienna-Cracovia e infine un treno fino a Przemyś, al confine tra Polonia e Ucraina. Passiamo la frontiera a piedi, al tramonto di un giovedì di fine agosto. Diligentemente, abbiamo scaricato la app degli allarmi antiaerei. Si chiama Air Alert! e l’icona sullo smartphone ha un’accattivante grafica gialla e blu. Ogni tanto, anche quando il cellulare è bloccato, parte il suono di una sirena a un volume spaventoso, una prima volta quando inizia l’allarme e una seconda quando cessa. Poi, in un tripudio di americanissimo pop, si sente la voce di Mark Hamill (per chi vive su un altro pianeta: il Luke Skywalker di Guerre Stellari), nella catch-phrase più popolare del tardo ’900, rispolverata per l’occasione: May the force be with you.

A Leopoli, scopriamo subito, quasi nessuno va più nei rifugi antiaerei. Il perché me lo spiega Larisa, un’energica signora dallo sguardo buono che dall’inizio della guerra si è reinventata interprete per coadiuvare gli aiuti internazionali in un paese in cui si parlano quasi solo ucraino e russo: «Preferiamo continuare a vivere, anche se sappiamo che potrebbe succedere qualcosa di terribile da un momento all’altro». Questa tensione verso la normalità riassume bene l’aria che si respira a Leopoli.

Ovunque in città si fa funzionare tutto, per quanto possibile. Librerie e caffè, negozi e uffici, autobus e tram. È facile qualche volta persino dimenticarsi che ci si trova in un paese in guerra. Ogni tanto, a lato di una strada, capita di vedere un cavallo di Frisia che qualcuno ha dimenticato di spostare, ma per il resto il traffico scorre tranquillo. Quando si sente parlare di guerra – specie attraverso i media e in un Occidente che da decenni si rifiuta anche solo di pronunciarne il nome – la mente corre a immaginare qualcosa di infinitamente distante, diametralmente opposto alla quotidianità che conosce. Così non è. Le strade di Leopoli sono popolate, i ristoranti aperti, si può uscire a mangiare cucina georgiana, vedere una mostra o fare shopping, ma questo non rende la guerra meno reale. La città non è rasa al suolo, ma questo non significa che le conseguenze del conflitto siano meno concrete.

Se a Leopoli la guerra come si è portati a immaginarla non è sempre e immediatamente visibile, è invece costantemente presente e ingombrante nel suo aspetto più subdolo e inequivocabilmente ingiusto: le ripercussioni sulla popolazione civile. In questa come in ogni altra guerra, i civili sono infatti le uniche vere vittime: impotenti davanti a giochi di potere a cui non possono prendere parte, ma che hanno su di loro gli effetti più tangibili e devastanti. Leopoli è diventata, dall’inizio del conflitto e in maniera molto naturale, una città-rifugio. Fino a poco più di un anno e mezzo fa, la città aveva una popolazione di circa 700.000 abitanti – dall’inizio delle ostilità si sono fermati qui più di due milioni di profughi.

Nell’oblast c’è un solo campo profughi ufficiale, riconosciuto a livello governativo, ed è quello di Skykyv. Si tratta di una serie di quelli che chiamano “moduli”, che sono in realtà minuscole stanze di circa due metri per tre, ricavate all’interno di container posizionati in un parco. In ogni modulo vivono da tre a cinque persone. A Skykyv conosco Valentina, viene dal Donbass, ha 77 anni e un figlio al fronte che non riesce a contattare da un po’. Ha perso una gamba e casa sua a gennaio durante un bombardamento. Era uscita da pochi minuti quando un missile ha distrutto la sua casa e una scheggia l’ha colpita. Dice che è fortunata anche così: almeno è viva. Ora vive in un piccolo spazio ricavato in un container nel campo profughi. In poco più di due metri quadri sta tutto quello che ha. Sua figlia, che inizialmente si era rifugiata in Grecia, è tornata per stare con lei dopo l’operazione. Anche Ludmila è del Donbass, vive qui da qualche mese e soffre di depressione. Svetlana viene da est, da Slovinski, suo figlio è al fronte e la mamma è morta qui nel campo poco più di un anno fa, vive nel campo dallo scorso marzo. Axana è qui da aprile del 2022 con suo marito e i tre figli piccoli, vivono in cinque in un tre metri quadrati.

Il campo di Skykyv non basta però a coprire che una piccola parte dei posti letto necessari a dare rifugio a tutti gli sfollati interni che raggiungono la città. Per il resto, l’accoglienza è stata organizzata con una serie di campi o soluzioni informali, come quello nelle due grandi palestre del politecnico oppure in edifici abbandonati o negli oratori di qualche chiesa. In uno di questi conosco Sveta, che ha perso tutte le dita dei piedi durante lo scorso inverno: un missile ha distrutto una parte dell’appartamento in cui viveva, ma lei non è riuscita ad andarsene. È rimasta a vivere in uno spazio a cui mancavano le finestre e una parte del tetto, e così ha subito un congelamento a cui è seguita l’amputazione. Ha un’aria calma, tranquilla e incredibilmente triste. Le donne come lei in città sono moltissime, si incontrano continuamente.

Leopoli – questo è un altro aspetto che non dovrebbe sorprendere ma che colpisce comunque quando lo si vede – è una città fatta quasi solo di donne. La maggior parte degli uomini da quando c’è la legge marziale si trovano al fronte o nelle caserme. Le donne sono invece le custodi della società civile, tengono insieme quello che resta. Zoya ha un problema alla tiroide dovuto allo stress e vive in uno dei campi insieme a sua figlia adolescente, potrebbe lasciare il paese e trasferirsi in qualche città europea dove riceverebbe un’assistenza migliore. Lei, come decine di donne che incontro, si rifiuta di andarsene: «voglio restare più vicina possibile a mio marito che è al fronte: restando nel paese diamo agli uomini qualcosa per cui combattere».

Una mattina incontro Krystyna Senchenko, che con le donne lavora ogni giorno: gestisce uno spazio di Insight, un’organizzazione a tutela dei diritti civili, e in particolare fa parte del progetto femminista Women in March. Ci incontriamo davanti all’ospedale militare di Leopoli, mi colpisce subito per la sua schiettezza e il suo sorriso. Stamattina, dice, è particolarmente sconvolta, stanotte non ha dormito. Ieri c’è stato un attacco missilistico durante una conferenza sui droni a Chernihiv. Scopro subito che anche in quanto a droni e armi è ormai diventata un’esperta. Davanti a un ottimo caffè, si lancia in spiegazioni e tecnicismi sui vari equipaggiamenti che l’esercito ha o vorrebbe acquisire e che lei sembra conoscere nei dettagli. La guerra fa anche questo: per contingenza, si diventa esperti negli argomenti prima più impensabili. «Non avremmo mai pensato che si arrivasse davvero all’invasione», racconta, «anche perché quasi ogni famiglia ucraina ha parenti in Russia, anche la mia». Con i parenti russi, che definisce vittime della propaganda, oggi non parla più. Anche sui rapporti con l’Occidente Krystyna ha le idee chiare: «Leggo sui media occidentali che si parla già di ricostruzione, ma qui sono discorsi impossibili da fare, non sappiamo nemmeno se e quando finirà la guerra, l’unica cosa che riusciamo a pensare adesso è come sopravvivere giorno per giorno».

Insight gestisce due rifugi a Leopoli, uno per donne e uno per persone queer, oltre a uno spazio comune in cui organizzano incontri e workshop, momenti di condivisione e arteterapia: «Cerchiamo di ricreare un senso di comunità per le donne e i bambini che hanno perso tutto e provano a ricominciare qui». È molto giovane, ma sembra avere un’energia inesauribile: «Sono fortunata, ho una casa e la mia famiglia sta bene, così faccio quello che posso per aiutare gli altri». Siamo sedute sui due grandi divani nello spazio di Insight, Krystyna mi sta raccontando della sua quotidianità, quasi come nulla fosse. Abbiamo all’incirca la stessa età, ma la sua vita si è trasformata all’improvviso in qualcosa di così complesso e distante, e la sua risposta è stata così ferma e determinata, che mi sento piccolissima. Prima di salutarci, mi mostra l’hub. Una carta geografica dell’Ucraina appesa al muro mi colpisce in maniera particolare. Alcune puntine colorate, concentrate per lo più a est, segnano le città, regioni e i paesini da cui vengono le persone che frequentano questo spazio.

Puntine da disegno colorate su una mappa appesa al muro per dire “sono qui”. Di milioni di puntine, di puntini, è fatta questa vicenda. Un mosaico complesso che è la faccia più umana della guerra. Le storie dei civili, della gente, delle persone in movimento. Cinque minuti per ascoltarle che cambiano tutto. Sulla loro pelle si combatte questa guerra, nei loro occhi il suo ritratto più onesto.


(Pangea News, 31 ottobre 2023)

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