Dopo i fatti di Colonia, chiediamoci quanto anche la nostra cultura alimenti la violenza contro le donne
di Davide Rostan, pastore valdese a Susa
“Dina, la figlia che Lea aveva partorito a Giacobbe, uscì per vedere le ragazze del paese. Sichem, figlio di Camor, l’Ivveo, principe del paese, la vide, la rapì e si uni a lei violentandola.” (Gen. 34,1-2).
Si potrebbe dire proprio che è la solita vecchia storia. C’è una ragazza che esce in uno spazio pubblico e un uomo, straniero, la prende con forza e la violenta. Il 35% della donne nel mondo, secondo i dati Onu ha subito abusi o violenze almeno una volta nella vita da partner o da altri uomini. E come nella vecchia storia della Bibbia anche oggi sembra, leggendo i giornali stranieri e italiani, che la questione sia se gli uomini fossero stranieri o meno, se la polizia ha fatto bene il suo lavoro, se le donne sono state abbastanza attente nel vestire o nel comportamento. Come nella Bibbia la storia sembra tutta una contrattazione tra uomini disonorati dal fatto che altri uomini hanno violentato le loro donne, che un’altra cultura voglia imporsi con la violenza nel paese. Come nella Bibbia, il dialogo rimane tutto sul piano dello scontro tra religioni, culture e uomini che si sentono nel diritto di prendere e offesi dall’invasione di altri uomini. La gravità di quanto accaduto in Germania (e altrove nel mondo tutti i giorni nel silenzio dei media) verrà strumentalizzato contro gli stranieri, si parlerà della cultura islamica, di leggi più restrittive, di chiusura dei confini. Poche parole spese, di solito da donne, su Dina e su tutte le altre che ogni giorno subiscono violenza di solito da persone con cui vivono o con cui hanno o hanno appena avuto una relazione. In molti casi il rifiuto conduce alla massima violenza: l’omicidio.
E persino nel moderno codice di leggi tedesco, l’art. 177 del codice penale, si afferma che per pronunciare una condanna bisogna prendere in considerazione anche il comportamento della vittima. Affinché il colpevole sia condannato, la vittima deve provare di aver opposto resistenza. Uno schema basato su idee perverse del come e del perché si possa esercitare violenza. Così, lo shock può diventare il motivo per cui una condanna non viene emessa. Per capire quanto sia ridicolo, basta immaginare questa legge applicata al furto: “Siamo spiacenti, non hai stretto abbastanza la borsa, è colpa tua”. Chiediamoci allora noi uomini, e soprattutto noi uomini “cristiani occidentali” quanto di questa cultura del “prendere” ci vada ancora bene. È una cultura che parte da lontano, è la stessa cultura dove il padre accompagna la figlia all’altare per mano e, dopo aver preso accordi con la famiglia dello sposo, la cede al marito che la “prende” come moglie. È la stessa cultura che fa della donna solo una potenziale vittima da proteggere con paternalismo, con leggi che tolgono dignità ma che, allo stesso tempo non accetta un “non ti amo più”, un rifiuto che spesso noi uomini non siamo in grado di gestire. Chiediamoci, da uomini, perché la prima reazione è sempre allontanare la violenza da sé cercando, nello straniero, nel violento, o in qualche comportamento della donna, la ragione di questo abuso contro le donne. Abuso trasversale che non conosce confini di razza, età, religione, censo. È la stessa cultura che spesso le chiese rinforzano e producono cercando di limitare in modi diversi la libertà della donna sul come gestire il proprio corpo, rifacendosi, di volta in volta, ad un certo tipo di teologia, alla tradizione, ai limiti da porre alla scienza, o trasformando il diritto delle donne in una pretesa eccessiva di autodeterminazione umana. È la stessa cultura che sforna le battute più o meno pesanti, più o meno grevi, che infiocchettano una cena tra uomini e a volte anche con donne a tutte le latitudini dentro e fuori le chiese. È la stessa cultura che si alimenta del silenzio degli uomini, capaci di accorgersi di Dina solo per affermare il proprio diritto/dovere a difenderla paternalisticamente, ma non di fare una riflessione su di sé, sul proprio modo di essere maschi e su quanto questa cultura diffusa ci piaccia e ci faccia stare bene come uomini e nelle relazioni che abbiamo tra di noi e con le donne.
Forse come suggerisce Musa Okwonga, giornalista afro-tedesco, sul Guardian di ieri, potremmo prendere questo ennesimo atto di violenza contro le donne, perché noi uomini, senza guardare al nostro background etnico, religioso o culturale, aprissimo una riflessione sul nostro rapporto con il corpo e con la violenza senza accontentarci di chiamarci fuori dicendo che non abbiamo mai compiuto azioni di violenza (e ci mancherebbe) e senza delegare la battaglia per cambiare questa cultura del “prendere” alle nostre amiche, compagne, madri e sorelle.