19 Gennaio 2023
Newsletter Wired - Roba da femmine

Colpi di pistola

di Maria Cafagna


C’è qualcosa che non torna nella morte di Martina Scialdone, avvocata di 35 anni, ennesima vittima di femminicidio. Impossibile tenere il conto delle donne uccise dall’inizio di quest’anno, un numero in continuo aggiornamento che probabilmente mentre leggete questa mail, sarà aumentato di una cifra, di due, di tre. Ogni femminicidio lascia dietro di sé una scia di dolore che vede coinvolte le persone che conoscevano la vittima, la famiglia, in molti casi anche i figli e chiunque provi il rimpianto di non aver fatto abbastanza. La morte di Scialdone non fa eccezione.

Martina e le altre potevano essere salvate? Si poteva fare di più? E a chi spetta davvero il compito di proteggerle, di metterle in guardia, di tenerle lontane dal pericolo?

Sono questi gli interrogativi che stanno circolando dal giorno del femminicidio della giovane avvocata, avvenuto a Roma la notte di sabato 14 gennaio poco prima delle 23:30. La donna era a cena con Costantino Bonaiuti, 61 anni, ingegnere e sindacalista dell’Enav. Una testimone interpellata da Repubblica racconta: «Martina l’ho vista nascere, della sua relazione erano tutti scontenti, ma anche lei aveva capito che non andava bene e non voleva riallacciare. Lei era andata anche dallo psicologo e voleva rompere».

Scialdone, che era specializzata in diritto di famiglia, nel corso della sua professione di avvocata si era occupata anche di donne maltrattate, aveva dunque tutti gli strumenti per riconoscere una relazione potenzialmente pericolosa e, una volta accortasi di essere in grave pericolo, aveva troncato la relazione con Bonaiuti, un uomo apparentemente molto instabile, tanto che alcune persone interpellate sostengono che avesse finto di aver un cancro (interpellato sull’argomento, l’avvocato di Bonaiuti ha smentito questa voce); il quotidiano La Stampa ha raccolto le testimonianze di un suo collega dell’Enav: «Ci raccontava della malattia oncologica e delle lunghe sedute di chemioterapia a cui si sottoponeva» e ancora «L’ingegnere era separato dalla moglie, ma viveva ancora con lei in un alloggio a Fidene. Appassionato di armi, era campione regionale di tiro e si esercitava nello stesso poligono dove sparava il killer della strage di Fidene, Claudio Campiti. I vicini di casa di Bonaiuti lo definiscono come “un uomo molto irascibile e violento”. Uno addirittura ricorda: “Sfrecciava con la sua Mercedes nera come un pazzo e quando gli ho chiesto di andare più piano mi ha risposto ‘Non mi scocciare, altrimenti ti sparo’”».

Lui e Martina Scialdone si erano rivisti forse per un ultimo incontro chiarificatore. Dopo aver cenato nel dehors del locale, tra i due era iniziata una discussione dai toni accesi. Da qui in poi, ci sono due versioni: alcuni testimoni raccontano che Martina si sarebbe chiusa in bagno e che i proprietari l’avrebbero invitata a uscire e a lasciare il locale insieme a Bonaiuti; versione circolata molto in rete e che ha scatenato l’indignazione generale. La seconda versione è proprio quella dei proprietari del locale«In merito alle informazioni false e diffamatorie che stanno girando sul web, ci teniamo a sottolineare che non fanno altro che aggiungere dolore a questa triste storia e che non sono frutto di una ricostruzione dei fatti rilasciata da chi non era neanche presente all’interno del locale durante l’accaduto» si legge sulle loro pagine social «Facciamo presente altresì che ci siamo resi totalmente disponibili a collaborare con le forze dell’ordine che stanno ancora svolgendo le necessarie indagini in merito all’accaduto».

Quel che è certo è che, una volta uscita dal locale, Martina Scialdone è stata raggiunta da Bonaiuti che le ha sparato al petto; la donna è poi corsa indietro per cercare aiuto e uno degli avventori del locale con competenze mediche ha cercato di rianimarla, ma era ormai troppo tardi. Martina è morta tra le braccia del fratello, che aveva chiamato in aiuto.

Sulle dinamiche sono in corso le indagini per accertare le responsabilità della morte di Scialdone mentre il web e i social sembrano aver già emesso la sentenza di condanna individuando nei ristoratori i colpevoli di quanto accaduto: la colpa del femminicidio era di chi non è intervenuto o di chi non ha capito subito la gravità della situazione, ovvero i proprietari del locale, il personale, i e le clienti.

In rete si leggono reazioni durissime, c’è chi augura loro la chiusura, chi invita le persone a boicottare il posto, chi li augura di fallire, chi altre cose irripetibili. A loro difesa è intervenuto Marco Pucciotti, noto ristoratore romano: «Quello che sta accadendo in queste ore è agghiacciante. L’ennesimo episodio di femminicidio che invece di essere condannato e analizzato, viene trasformato in un circo mediatico» scrive sul suo profilo Facebook «E così il popolino di internet […] fa partire una shitstorm verso chi di questa storia è tristemente vittima. Vicino alla famiglia di Martina, ai ragazzi di Brado, ai suoi clienti e ai suoi dipendenti che vivranno quegli attimi da incubo per il resto della loro vita». Il post si conclude con l’invito a lasciare recensioni positive al locale in segno di solidarietà.

Costantino Bonaiuti era arrivato all’appuntamento armato, quindi è molto probabile che avesse già deciso di uccidere l’ex compagna che forse, messo alle strette, avrebbe potuto compiere una strage. La verità è che contro un uomo malintenzionato spesso c’è poco da fare. Martina aveva adottato tutte le precauzioni necessarie allontanandosi da lui e scegliendo un luogo affollato vicino alla sua abitazione per il loro incontro. Come sottolinea la giornalista Giulia Siviero su Twitter, anche in questo caso si è cercato di trovare qualcosa che non andava nel comportamento della vittima, ma bisogna sempre ricordare che in molti casi si asseconda l’uomo violento proprio per paura di incorrere in reazioni incontrollate.

Lo dico con la morte nel cuore perché mi sono ritrovata in situazioni simili a quella in cui si è trovata Martina. Molte volte mi sono ritrovata a discutere con il mio ex violento in un locale, molte volte la gente mi ha visto terrorizzata, ho incrociato lo sguardo di chi mi chiedeva se avessi bisogno di aiuto e io ho fatto segno di no con la testa per paura. Ho anche chiesto aiuto e non sono stata ascoltata, ma non ho trovato comunque la forza di uscirne per paura delle reazioni di lui.

Sono giorni che penso a Martina, sono giorni che penso a quelle serate terrificanti passate a pensare «adesso mi ammazza», sono giorni che penso a tutte le volte che immaginavo come avrebbe reagito mia madre alla notizia della mia morte, a cosa avrebbero pensato le mie amiche, a cosa avrebbero detto i miei colleghi. Sono giorni che l’immagine del mio ex mi torna in mente, che ripenso a tutte le volte che la mia storia non è risultata credibile perché lui era una brava persona e tutte le volte che ci penso mi dico che l’unico modo per fermare questa strage è smetterla di fare raccomandazioni alle donne e di iniziare a lavorare sugli uomini. Dobbiamo iniziare questo benedetto lavoro di smantellamento del patriarcato, della violenza, della paura del rifiuto come onta massima.

Ma come facciamo se ogni volta che ne parliamo si tira fuori lo spauracchio del gender? Come facciamo se per ogni femminicidio la colpa è sì dell’assassino ma anche un po’ di lei, della famiglia, dei passanti, dello Stato, della Chiesa, dei social, della crisi? A uccidere le donne sono gli uomini che premono il grilletto, che usano il coltello, che scagliano i colpi di martello. Prima lo accettiamo prima inizieremo a fermare una volta per tutte questa strage.


(Newsletter Wired – Roba da femmine, 19 gennaio 2023)

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