27 Aprile 2021
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Colpisce di più poveri e deboli, ecco perché quella del Covid è una sindemia

di Giulia Belardelli


Il caso indiano spiega perché bisogna togliere i brevetti ai vaccini. Parla Morrone (San Gallicano)


Le immagini devastanti che arrivano dall’India – il principale produttore mondiale di vaccini, costretto a bruciare in strada le vittime del Covid – sono l’ultimo memento di quanto l’assenza di una visione globale nella lotta alla pandemia possa farci scivolare sempre più giù. Il successo dei vaccini – sviluppati in tempi record grazie a un enorme dispiegamento di fondi pubblici – non si sta traducendo in un ampliamento della produzione e della distribuzione delle fiale in tutto il mondo. Da mesi esperti, premi Nobel, ex capi di Stato e di Governo, e ora anche leader religiosi, chiedono a gran voce una sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini accompagnata dalla condivisione di know-how e tecnologie in grado di colmare il divario nella vaccinazione tra Nord e Sud del mondo, ma le loro richieste sono sempre rimaste ignorate o respinte con la tesi secondo cui una rottura anche solo temporanea dei monopoli delle grandi case farmaceutiche comporterebbe un freno a scoperte future.

Per Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma, il caso indiano rende ancora più urgente «una moratoria temporanea dei brevetti sui vaccini per un motivo molto semplice: in questo momento abbiamo bisogno di salvare il pianeta. C’è necessità di poter produrre il maggior numero di vaccini a livello mondiale per poter vaccinare il maggior numero di persone possibile». Al tema del “Covid-19 tra Nord e Sud del mondo” il professor Morrone ha appena dedicato un convegno virtuale a cui hanno partecipato decine di esperti internazionali. Per molti di loro, è tempo di affrontare la sfida del Covid non più come una pandemia ma come una sindemia, un concetto introdotto negli anni Novanta dall’antropologo medico statunitense Merrill Singer.

È Morrone a guidarci nel significato di questo termine applicato a Covid. «Singer parlava di sindemia riferendosi soprattutto al rapporto tra patologie correlate a un’infezione. In senso più ampio, la sindemia è la relazione che esiste tra una pandemia e le condizioni ambientali, socio-economiche, politiche, il livello di istruzione, il livello di impoverimento, il riscaldamento globale, il problema economico della perdita del lavoro. Si prendono in considerazione tutti gli elementi correlati a una epidemia di natura globale. Un approccio sindemico tiene conto dei contraccolpi della pandemia in tutti gli altri ambiti: se la pandemia richiede una soluzione di natura clinico-scientifica, la sindemia necessita di una soluzione economica e politica molto più ampia». Per la prima volta nella storia del genere umano – sostengono Morrone e colleghi – la pandemia è diventata sindemia globale. Ma al moltiplicarsi dei problemi non è corrisposto un allargamento della visione globale. O quello che si definisce un “approccio sindemico”, di cui la necessità di una moratoria temporanea dei brevetti è parte integrante. «Ormai dovremmo esserci resi conto che nessuno può trovare una soluzione alla pandemia come se fosse un’isola», prosegue l’infettivologo che da quarant’anni lavora con le fasce più fragili della popolazione in Italia e all’estero. «È ormai evidente che questo virus non è democratico: è esattamente il contrario della livella di Totò perché ha colpito le fasce più indifese e fragili delle nostre società. L’idea che l’India potesse non essere attaccata dal virus era un’idea infantile, e lo stesso discorso vale per l’Africa». Le parole di Modi a Davos – il vanto per un’India che si era salvata dallo “tsunami” della pandemia – erano una risposta politica che non teneva conto della realtà del Paese, che è sì il maggior produttore mondiale di medicinali e vaccini, ma ha un sistema sanitario fragile e poca capacità di organizzazione e distribuzione dei farmaci. «Sono stato a lungo in India, anche in zone rurali molto remote, e ho ricordi dolorosissimi», racconta Morrone. «Quando morivano i pazienti più poveri, c’era il problema di come cremare i cadaveri visto che nessuno comprava legna per loro. Era l’ospedale stesso ad acquistarne un po’, ma si facevano pire con il mimino indispensabile. Il risultato è che per strada c’erano pezzi di cadavere perché i corpi non bruciavano abbastanza… Proviamo a immaginare la gravità della situazione di oggi, con le pire improvvisate per le strade come unica soluzione per evitare una catastrofe igienico-sanitaria ancora peggiore». Dall’India al Brasile, dalle fosse comuni nel Bronx alle bare portata via da Bergamo, fino alle cremazioni in tilt a Roma, veniamo da un anno in cui l’esperienza collettiva della morte non è bastata a farci considerare la sindemia di Covid-19 come un evento talmente straordinario da richiedere un approccio altrettanto straordinario.

Per il direttore del San Gallicano non c’è altra via che «imporre a livello internazionale uno stop temporaneo ai brevetti come è già accaduto durante la Seconda guerra mondiale, quando ci fu l’iniziativa della penicillina. La penicillina si rivelò in quel periodo l’unica vera terapia efficace contro molte malattie, per cui ci fu una sorta di accordo negli Stati Uniti tra le varie industrie per sospendere i brevetti e fare in modo di aumentare il più possibile la produzione. Gli scopritori – Alexander Fleming, Ernst Boris Chain – andarono negli Usa perché avevano bisogno di finanziatori per produrre. Fu un accordo fondamentale: tutta la storia del Dopoguerra è una storia di malattie drammatiche, come la sifilide, sconfitte grazie alla penicillina. Abbiamo bisogno di uno sforzo del genere». L’iniziativa Covax, nata per distribuire circa 2 miliardi di dosi entro la fine di quest’anno ai paesi impoveriti, sta incontrando difficoltà e rigidità che denotano la debolezza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. «L’Oms – osserva ancora Morrone – non è più quella degli anni ’80, sorretta da una visione della salute come bene comune; i suoi finanziamenti sono determinati da grandi società e influenti lobby. L’Oms avrebbe dovuto essere in grado di finanziare nei paesi più poveri almeno le infrastrutture, ma così non è stato e il risultato è che abbiamo perso tempo in una corsa in cui il tempo è tutto. Dobbiamo guadagnare tempo: meno il virus si replica, meno può creare nuove varianti più pericolose, le cosiddette “vaccine escape”, quelle capaci di aggirare o ridurre la protezione dei vaccini».

I vaccini oggi sono la nostra arma da pronto soccorso, come la penicillina per i soldati che morivano per le infezioni. «È evidente – prosegue l’infettivologo – che abbiamo bisogno di produrre vaccini sufficienti a coprire le necessità della popolazione mondiale, ma soprattutto di quella più a rischio di morire».

Morrone smonta dunque le tesi di chi si oppone alla moratoria dei brevetti citando argomenti come la complessità dei vaccini (in particolare quelli a mRna) e il rischio di costituire un precedente dannoso per scoperte future (le aziende farmaceutiche – si sostiene – potrebbero diventare più restie a fare grandi investimenti per lo sviluppo di nuovi vaccini o farmaci, perché alle incertezze legate alle fasi di sviluppo e sperimentazione si aggiungerebbero quelle sul rischio di vedersi sospendere il brevetto). «Nel caso dei vaccini anti-Covid – ribatte l’esperto – c’è stata l’erogazione di fondi pubblici per la ricerca scientifica delle case farmaceutiche, ed è chiaro che anche il rischio d’impresa in questo caso è stato minore». 

Quanto al primo punto, sostenere che i vaccini a mRna siano troppo complessi per essere condivisi significherebbe negare l’aspetto più bello della ricerca scientifica, ossia la sua democraticità, commenta Morrone, che fa l’esempio della poliomielite. Albert Bruce Sabin (virologo polacco naturalizzato statunitense, famoso per aver sviluppato il più diffuso vaccino contro la poliomielite) fu duramente attaccato perché il suo rifiuto a brevettare il vaccino consentì ai paesi oltrecortina di produrre e somministrare vaccini in massa. «Noi abbiamo bisogno che si ripeta questo tipo di logica, in un mondo sempre più interconnesso: dobbiamo salvare il salvabile. Dobbiamo prendere tempo perché non vaccineremo mai 7 miliardi di abitanti. Però se vacciniamo il maggior numero di persone e riusciamo a prendere tempo, è possibile che questo virus diventi endemico. L’ideale sarebbe arrivare a una forma di virus endemico contro il quale vaccinare periodicamente soprattutto le fasce più a rischio e più vulnerabili».

Ed è qui che ritorna il concetto di sindemia, una visione attorno a cui convergono leader religiosi ed esperti di politica sanitaria. «La soluzione di una malattia infettiva è la terapia; la soluzione di una sindemia deve venire dalla medicina, dalla scienza, ma anche dalla politica e dall’economia», argomenta Morrone, che la settimana scorsa ha partecipato alla vaccinazione delle persone più povere in Vaticano, nell’Aula Paolo VI. Alcuni credono ancora che l’apartheid sia una strategia per salvarsi dal virus (Regno Unito, Israele); altri hanno usato i vaccini come strumento di egemonia geopolitica (Cina, Russia); altri ancora hanno impiegato mesi per “liberare” dosi AstraZeneca inutili a livello interno ma preziosissime oltreconfine (Stati Uniti). Nessuno – tanto meno l’Unione Europa – ha chiesto un incontro alle Nazioni Unite, un’assemblea speciale e permanente dell’Oms. Si è data la parola a una serie di esperti, «ma noi esperti – conclude il nostro – tendiamo spesso a guardare più il nostro ombelico che il mondo». Le immagini di quei cadaveri che bruciano – o non riescono a bruciare – ci dicono che non sarà mai troppo tardi per chiedere una risposta coraggiosa a un dramma globale.


(HuffingtonPost, 27 aprile 2021)

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