19 Gennaio 2018
Rasoio di Occam

Contro il femminismo di regime

di Carlo Formenti

Il recente dibattito interno al femminismo, testimoniato anche dall’Almanacco di Filosofia di “Micromega”, apre uno spazio per la ripresa delle correnti anticapitalistiche del femminismo, aiutandole a ricavarsi un ruolo egemonico nel movimento delle donne e a contenere l’influenza delle correnti “emancipazioniste” e dell’estremismo “genderista”, che funzionano da vie di penetrazione dell’immaginario neoliberista nel movimento

Sull’ultimo numero del 2017, nel suo Almanacco di Filosofia, “MicroMega” ospita la dura polemica che ha opposto, da un lato, lo storico Vojin Saša Vukadinovič e Alice Schwarzer (direttrice di EMMA, rivista storica del femminismo tedesco), dall’altro, la filosofa statunitense Judith Butler e la sociologa tedesca Sabine Hark[i]. Prendendo spunto da letture dissonanti del noto episodio della notte del 31 dicembre 2015, allorché una folla di immigrati musulmani invase il centro di Colonia esercitando molestie sessuali nei confronti delle cittadine tedesche che festeggiavano il capodanno, i due fronti si sono scambiati accuse di razzismo (Butler – Hark contro Vukadinovič – Schwarzer) e di un relativismo culturale giustificatorio, se non complice, nei confronti delle pulsioni  maschiliste dell’islamismo (Vukadinovič – Schwarzer contro Butler – Hark). Al netto della virulenza verbale (con insulti reciproci degni di una rissa fra stalinisti e trotskisti), il confronto sollecita una riflessione in merito a ciò che mi pare caratterizzi buona parte del dibattito teorico, tanto nel campo femminista “ortodosso” quanto in quello dei gender studies, vale a dire una sorta di oscillazione fra cattivo universalismo e cattivo relativismo.

Cercherò di argomentare quanto appena affermato commentando, oltre che i testi sopra citati, la beffa architettata da Peter Boghossian e James Lindasy ai danni delle derive postmoderne negli studi di genere[ii], alcuni passaggi di un recente libro di Judith Butler[iii], un’intervista rilasciata dalla filosofa Luisa Muraro nel 2016[iv], infine un articolo di Nancy Fraser pubblicato su “Micromega” online[v].

Parto dall’esilarante “fake paper” del duo Boghossian – Lindsay. Si tratta di un testo intenzionalmente delirante che i due hanno sottoposto al vaglio di una rivista “scientifica” di studi di genere, ottenendone la pubblicazione in barba alla bibliografia in larga parte falsa, se non inventata di sana pianta, e all’incredibile florilegio di affermazioni insensate (si va dalla tesi che la postura dei maschi che siedono a gambe larghe è il riflesso di un atteggiamento di “stupro dello spazio vuoto circostante”, alla denuncia della responsabilità del pene come “propulsore concettuale del cambiamento climatico”, in quanto quest’ultimo è l’esito inevitabile “di uno stupro della natura da parte di una mentalità maschile predominante”). Gli autori spiegano di aver tratto ispirazione da un’operazione effettuata anni fa dal fisico Alan Sokal, il quale si proponeva di denunciare l’uso improprio di metafore mutuate dalle scienze naturali da parte degli studiosi postmodernisti di scienze sociali (il bersaglio era il gergo dei cultural studies con particolare riferimento agli studi postcoloniali). Boghossian e Lindsay sostengono che, a far accettare come ovvie verità le insensatezze inserite nel loro testo (alcune delle quali formulate ricorrendo al Generatore Postmoderno, un algoritmo creato da Alan Sokal), è stato il tono “moraleggiante” (leggi: la denuncia della natura intrinsecamente malvagia della mascolinità), mentre aggiungono di non nutrire illusioni in merito all’effetto demistificante della provocazione, in quanto il campo dei gender studies è affetto da dissonanza cognitiva, si fonda cioè su certezze aprioristiche che sfidano ogni smentita empirica. Una di tali certezze coincide con la convinzione secondo cui il pene anatomico avrebbe poco o nulla a che fare, non solo con il genere, ma persino con il sesso.

Contro tale dogma si rivolgono a loro volta Vukadinovič e Schwarzer, mettendo in luce come i teorici del gender facciano derivare dalla consapevolezza della storicità dei ruoli di genere, e dall’assunto che dietro di essi non si darebbero alcuna natura né alcuna realtà, la libera e arbitraria modificabilità degli stessi (costoro, scrive Schwarzer in proposito, “scambiano i propri giochi mentali per la realtà, suggeriscono che ogni essere umano può essere, qui e ora, esattamente quello che sente di essere”). Fin qui siamo nell’ambito del dibattito filosofico. Le cose si surriscaldano e assumono valenza politica laddove Vukadinovič sottolinea come dalle rivendicazioni del diritto a essere ciò che si sente di essere, venga fatta discendere la richiesta di “ripulire” testi accademici e letterari, linguaggio quotidiano, fenomeni sociali e problemi politici di tutto ciò che può essere ritenuto offensivo nei confronti di questo o quel gruppo di “emarginati”, fino all’invito a strappare le pagine dei testi incriminati (quando il politicamente corretto tocca vette che evocano sinistri ricordi dei roghi nazisti di libri).  E il calore sale ulteriormente laddove alla Butler viene rimproverato di non avere preso una posizione chiara e netta contro “l’orda di Colonia”, un’ambiguità che la filosofa statunitense giustifica con la necessità di tenere conto dell’esistenza di una differenza culturale che – nella misura in cui venisse ignorata – rischierebbe di far slittare l’indignazione femminista verso l’indignazione razzista.

Per cercare di precisare meglio il punto di vista di Judith Butler – a mio avviso più complesso rispetto a quello esposto dai suoi critici nel contesto appena illustrato, ma soprattutto non omologabile a quello degli esponenti più deliranti della gender theory – preferisco fare riferimento, invece che alla breve replica apparsa su “Micromega” (resa meno efficace dal risentimento nei confronti dei detrattori, che vengono persino accusati di “trumpismo”), a uno dei suoi libri più recenti[vi]. Le critiche che Butler rivolge all’universalismo del femminismo mainstream (facendo riferimento, per esempio, all’appoggio nei confronti delle leggi francesi che puniscono le donne che indossano il velo) prendono le mosse dalla convinzione che le donne dovrebbero riconoscere: 1) che esse non sono l’unico segmento di popolazione esposto a condizioni di precarietà e di privazione dei diritti; 2) che la popolazione sussumibile sotto la denominazione minoranze di genere e sessuali (quindi non solo le donne ma la comunità LGBTQ) è differenziata al proprio interno in termini di classe, razza, religione, appartenenze comunitarie linguistiche e culturali. Da questa duplice presa d’atto, viene fatta derivare un’importante conseguenza politica: il movimento femminista dovrebbe diffidare delle forme di riconoscimento pubblico (riconoscimenti, aggiungo io, che oggi gli piovono generosamente addosso da partiti e governi di centro, destra e sinistra, media, canzoni, film, programmi televisivi, aule parlamentari e di tribunale, ecc.) soprattutto se e quando tali riconoscimenti servono a deviare l’attenzione dal massiccio disconoscimento dei diritti di altri soggetti. In conclusione: se Butler parla della necessità, in casi come quello della notte di Colonia, di trovare il modo di portare avanti un discorso antisessista che sia al tempo stesso antirazzista, non lo fa per negare la gravità dell’episodio, bensì perché si ritiene impegnata a indagare le vie attraverso le quali “la precarietà potrebbe operare come luogo di alleanza fra gruppi di persone che, al di là di essa, hanno poco in comune, o tra i quali c’è talvolta persino diffidenza o antagonismo”.

Non discuterò qui le strategie politiche che, secondo Butler, dovrebbero consentire di costruire tale alleanza (personalmente non le condivido, e in ogni caso non sono qui il tema principale). Sta di fatto che, almeno a mio parere, la sua critica a un certo cattivo universalismo coglie nel segno. Nel mio ultimo libro[vii], riferendomi agli attentati terroristici effettuati da immigrati di terza e quarta generazione in Francia, ho a mia volta sostenuto la necessità di non appiattirsi sul coro delle esecrazioni contro il fanatismo islamico in nome dei “valori universali” incarnati dalle democrazie occidentali[viii], rimuovendo, fra gli altri fatti: 1) che molti di quei ragazzi non solo non erano stati assidui praticanti religiosi fino a poco prima di commettere attentati, ma avevano condotto vite simili a quelle dei coetanei occidentali; 2) che in molti casi avevano vissuto esperienze radicali di esclusione e marginalità, alle quali, non solo le élite dominanti, ma nemmeno le sinistre tradizionali avevano saputo offrire risposte; 3) che la scelta di luoghi di consumo e divertimento come bersagli rispecchiava la frustrazione per la loro condizione di esclusi per cui poteva essere letta anche come espressione di un odio di classe (rafforzato dal conflitto razziale) “pervertito” in fanatismo religioso. Ciò non ha nulla a che fare con una “giustificazione” del terrorismo, così come penso che l’invito della Butler di andare al di là dell’esecrazione contro “l’orda di Colonia” non abbia nulla a che fare con una giustificazione della violenza maschilista. Il problema di un certo cattivo universalismo femminista deriva a mio parere dall’eredità che il femminismo degli anni Sessanta – Settanta ha mutuato dalla visione delle sinistre neomarxiste, mettendo in atto una sorta di slittamento dalla classe operaia al genere femminile come incarnazioni dell’interesse generale dell’umanità. Questa visione – variamente trasfigurata – si è perpetuata fino ai giorni nostri in barba alla progressiva disarticolazione delle strutture e delle identità sociali, fino all’attuale frammentazione di soggettività economiche, politiche, ideologiche, culturali, religiose, etniche, sessuali, ecc. Ma la sua riproposizione in condizioni storiche mutate finisce di fatto per sposare i valori dell’universalismo borghese occidentale, con la conseguenza di tracciare confini amico/nemico semplificati, che neutralizzano il groviglio di antagonismi sempre più complessi e intrecciati cui ci troviamo di fronte.

Tutto questo significa che la ragione sta tutta dalla parte di Judith Butler, mentre gli argomenti dei suoi critici sono inconsistenti? Assolutamente no, perché – ancorché più sofisticata di altri e altre esponenti della teoria gender – la visione della Butler incarna l’altro corno della contraddizione che richiamavo poco sopra, vale a dire quello del “cattivo relativismo”. Criticando l’universalismo femminista, la Butler rivendica infatti la propria opposizione a “un pensiero che astrae dalla persona nella sua individualità e dalle circostanze in cui si colloca”. Ma tale affermazione conferma che ci troviamo di fronte al tentativo “estremo e individualistico”, per usare le parole di Luisa Muraro[ix], di assumere nell’identità personale qualunque identità. L’esaltazione delle “singolarità” – che accomuna i gender studies alle correnti mainstream delle teorie postcoloniali, delle filosofie poststrutturaliste e del postoperaismo – è infatti un tratto caratterizzante di quel pensiero “americanizzato” che tende a neutralizzare le differenze «forti» – di classe, genere, etnia, religione, ecc. – sostituendole con la galassia delle microidentità, che vengono fatte proliferare fino a coincidere, appunto, con la singola persona. Riferendosi agli effetti politici delle concezioni egemoni nel campo delle teorie del gender, Muraro ha dichiarato: «è da tanto tempo che mi porto dietro l’idea che si procedesse nella direzione di far fuori la differenza sessuale irriducibile alla logica del capitalismo finanziario»[x]. Tornerò più avanti – discutendo le tesi di Nancy Fraser – su questa tendenza alla neutralizzazione della differenza sessuale da parte del modo di produzione tardocapitalista –, per ora mi limito a sottolineare la lucidità con cui Muraro coglie la contraddizione di un femminismo che, mentre punta alla parità togliendo di mezzo la differenza sessuale in quanto la ritiene la maggior fonte di discriminazione a danno delle donne, non sembra rendersi conto del fatto che “la parità è un concetto mutilante”, e che il carattere delle libertà civili “ha in sé qualcosa di intrinsecamente discriminatorio” che non può essere corretto dall’equiparazione.  Il “travestitismo generalizzato” promosso dalla sistematica sostituzione del linguaggio sessuato con il linguaggio gender, rincara Muraro, appare del tutto funzionale ai rapporti di potere che si illude di scalzare (soprattutto perché – chioserei io – una volta frantumate nel pulviscolo delle singolarità, le soggettività antagoniste non sono più in grado di costruire alleanze politiche, in barba ai discorsi di Negri sulla fantomatica “moltitudine” o di Butler sulla non meno fantomatica “alleanza dei corpi”).

Chiudo questa prima parte del mio intervento, ricordando che l’intervista da cui ho tratto le citazioni da Luisa Muraro risale al periodo in cui la filosofa aveva pubblicamente denunciato il business della maternità surrogata come un attacco diretto alla relazione materna, beccandosi (a conferma della furia censoria sopra denunciata da Vukadinovič) l’accusa di “seminare odio contro gli omosessuali”. Sempre in quella occasione, aveva affermato, a proposito dell’illusione di poter scegliere arbitrariamente di essere quello che si vuole/crede di essere: “Cos’è la differenza sessuale? È la vita stessa. Ben prima che apparissero gli esseri umani la vita si è biforcata in maschio e femmina. Vogliamo cancellare questa cosa o la vogliamo tradurre in cultura? Io dico: non buttiamoci sulla differenza sessuale secondo le interpretazioni che di essa abbiamo ereditato. Poniamoci davanti, in tutta tranquillità e libertà, il problema che noi siamo esseri radicati nella vita naturale e la sessualità è eredità che la natura ci affida (sottolineatura mia). Non rimuoviamo questa evidenza e andiamo avanti, al di là di ogni stereotipo, a interpretarla culturalmente”. (…)

(Il rasoio di Occam, 19 gennaio 2018)

Print Friendly, PDF & Email