11 Novembre 2023
Linkiesta

Conversazione con Elena Granata. La città delle persone si crea puntando sull’immaterialità dell’architettura

di Fabrizio Fasanella


Tutti, o quasi, almeno una volta nella vita hanno giocato a Monopoli in una fredda serata invernale. In pochi, però, sono a conoscenza della sua vera origine, che si discosta dalla ricostruzione realizzata dal game designer americano Charles Darrow e poi commercializzata nel 1935. Il precursore del Monopoli si chiama “The Landlord’s Game”, registrato all’ufficio brevetti statunitense dalla sua inventrice, l’imprenditrice Elizabeth Magie Phillips, nel 1903.

Quella versione, meno favorevole al monopolio e allo strapotere della ricchezza, era un vero e proprio strumento didattico in cui i giocatori potevano vincere unendo le forze, contrastando così la speculazione. Ma nell’immaginario collettivo la creazione del Monopoli è comunque attribuita a Charles Darrow, “smascherato” nel 1973 dal professore di economia Ralph Anspach. Questa storia è emblematica per due ragioni che si intrecciano tra loro. Da una parte conferma che, nonostante la cultura del profitto e della competizione, nelle grandi città può trionfare il senso di comunità. Dall’altra testimonia l’ingombrante presenza delle disuguaglianze di genere in tutti i campi culturali (ma non solo) del Novecento. 

Non è un caso che il quinto capitolo de Il senso delle donne per la città (Einaudi) – il nuovo libro di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di economia civile (Sec) – termini proprio con il racconto delle origini del Monopoli. Il cuore del testo, e del problema inquadrato nelle sue pagine, è tutto lì.

Il libro dell’architetta rivendica l’importanza della dimensione immateriale e sociale dell’architettura, che nel secolo scorso ha prodotto città a misura di banconota e non di essere vivente (uomini, animali, piante). Quel modello è stato cavalcato e abusato da professionisti uomini, perché le donne – è un dato di fatto – sono sempre state tenute ai margini dell’architettura: «Non potendo costruire hanno scritto. […] Sono state più giardiniere che progettiste, più pedagogiste che ingegnere», si legge nelle prime righe del volume. 

Ora che l’assetto urbano novecentesco è andato in crisi, stiamo sentendo la necessità di vivere in contesti capaci di dare più spazio alle relazioni, alla sicurezza, alla salute e alla creatività. Qui, spiega Elena Granata, entrano in gioco le donne, che per anni hanno sperimentato e praticato arti considerate (erroneamente) minori, ma essenziali per costruire la città del 2030 o del 2050, più resiliente alla crisi climatica e attenta ai diritti.

Il senso delle donne per la città è un libro che spiega argomenti complicati in modo accessibile ed equilibrato, con un approccio didattico ma anche intimo e personale. Un testo che, senza perdere il contatto con l’attualità, illumina le storie di quelle che la docente del Politecnico di Milano definisce «pensatrici non ortodosse» dell’architettura: da Lina Bo Bardi a Jane Jacobs, da Sarah Robinson a Majora Carter. Tutte architette, urbaniste, giornaliste, pedagogiste, professoresse e designer che hanno gettato le basi per realizzare i contesti urbani in cui – per ragioni climatiche, etiche e sociali – dovremo per forza vivere. Parlare di città con Elena Granata è uno straordinario esercizio di educazione alla complessità e alla pervasività delle sfide urbanistiche del futuro, e questa intervista ne è la conferma.

Siamo abituati ad associare l’architettura a risultati tangibili. Nell’introduzione del libro, però, scrivi che servono visioni che mettano al centro l’immateriale: «Dal dominio della forma alla forza dell’immateriale, dal primato dell’economia al primato dell’ecologia». Cosa intendi nello specifico con “immateriale”?

Gli architetti hanno costruito tantissimo, ma non hanno lasciato il segno dal punto di vista culturale. Questo è un problema per la nostra categoria, che tendenzialmente crede che le opere siano più importanti del pensiero. Abbiamo lasciato poco in termini di innovazione nel modo in cui abitiamo le città, tant’è vero che ancora oggi gran parte della bellezza sta nel passato e non nella contemporaneità. Nel libro mi soffermo sulle visioni e le relazioni. Sembrano cose astratte, e invece hanno a che fare con il muoversi con facilità e in sicurezza, la qualità della vita, il verde, gli spazi pubblici, i luoghi adatti all’apprendimento: è rimasto fuori tanto dalla produzione edilizia. Serve un pensiero pratico che parta però da bisogni, luoghi ed esperienze: ecco le tre parole che mi stanno a cuore.

Perché continuiamo a sottovalutare le dimensioni sociali e umanistiche dell’architettura?

Perché abbiamo avuto cinquant’anni di primato dell’economia, del funzionamento e della velocità: tutti valori che oggi possiamo ascrivere a quella viralità tossica che si è ritrovata anche nel campo urbano. Con la pandemia e la crisi climatica questo assetto urbano è andato in crisi.

È andato in crisi, ma in molti (forse troppi) casi è ancora praticato.

Sì, perché c’è un vuoto di immaginazione. Per questo chiamo in causa le donne. Essendo rimaste escluse dai campi delle decisioni, della gestione e del progetto, hanno avuto più tempo per dedicarsi a quelle cose ritenute meno essenziali: qualità di vita, interni, comfort, spazi pubblici, spazio del gioco, natura, fotografia. Nel libro chiamo in causa le migliori pensatrici del nostro tempo: sono quasi tutte donne contemporanee del tardo Novecento che avrebbero fatto da pilastri a una cultura più equilibrata sull’architettura. Ma sono state presto dimenticate.

Per esempio?

Pensa a Lina Bo Bardi, che in Brasile è considerata una madre della patria, ma in Italia è stata dimenticata a lungo (ha vinto il Leone d’Oro quasi trent’anni dopo la sua morte, ndr). Nel libro racconto anche la storia di Denise Scott Brown, co-autrice di un libro di architettura – “Imparare da Las Vegas” – studiato in tutto il mondo. Lei ebbe l’idea di portare gli studenti in giro per Las Vegas a guardare gli edifici, “sporcandosi le mani” e camminando per le strade. Quel libro, però, lo scrisse col marito (Robert Venturi, uno dei principali esponenti della corrente architettonica postmoderna, ndr) e un giovane collaboratore. E lei sparì quasi subito dall’immaginario collettivo.

C’è un capitolo, il sesto, intitolato “Quello che gli occhi non vedono – cogliere le relazioni tra i vari sensi”. Quali sono i sensi che rimangono nell’ombra all’interno delle nostre città?

Abbiamo costruito città incentrate sul vedere, l’architettura è instagrammabile. La città, però, interagisce con la materia di cui siamo fatti e scomoda tutti i sensi, come il tatto. Quest’ultimo, secondo me, è il senso più carente. La città è fatta per essere attraversata ma non toccata. Spesso, per esempio, non ci si può sedere, accomodare. La città di oggi è fatta per transitare e non per stare. Pensa alla materia di cui è fatto il suolo: l’asfalto e il cemento sono materiali duri che, secondo alcuni studi, incidono negativamente sul nostro processo di invecchiamento, mentre camminare sul selciato, sulle pietre o sul suolo imperfetto ci fa “invecchiare bene” perché rende le gambe più resistenti. Abbiamo sterilizzato l’esperienza urbana.

Perché la visione di una donna può fare la differenza nell’architettura? È corretto chiamare “gender gap” il fenomeno di cui parli nel libro?

Ho evitato in tutto il libro di dire che le donne – in quanto donne e portatrici di una loro visione del mondo – se fossero nei posti di comando farebbero diversamente. Mi sono guardata bene dal dire questa cosa, innanzitutto perché non è detto che sia vera. Ma le donne, essendo state sempre escluse, sono più vergini nello sguardo, entrano come straniere in un assetto condizionato dall’approccio maschile. Hanno l’originalità di chi arriva da fuori con un pensiero laterale, quindi portano innovazione. Ma quando le donne assumono lo sguardo del mainstream, allora si conformano e fanno un pessimo servizio, diventando insensibili alle migrazioni, ai bambini e alle fragilità.

C’è una forte differenza tra sicurezza e percezione della sicurezza: i reati calano, ma la paura aumenta. I dati ci dicono che il 75,8 per cento delle donne teme di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici di sera. In che modo l’architettura può rivelarsi un’alleata della sicurezza senza esercitare un controllo asfissiante e opprimente?

Il decalogo su come si fa uno spazio sicuro esiste dagli anni Cinquanta: buona illuminazione, evitare corridoi e punti ciechi, eccetera. Ce la caveremmo con un po’ di buon senso, ma perché non accade? Perché progettiamo luoghi con insensibilità rispetto al tema della sicurezza? La risposta è che nel campo dell’architettura prevale la funzionalità dello spazio sulle altre dimensioni: il comfort, la percezione del pericolo, l’illuminazione.

E come possiamo invertire la tendenza?

Citando i casi di Vienna e Varsavia, oggi bisogna coinvolgere le ragazze – ma parimenti anche i ragazzi – nelle fasi di progettazione, perché l’utente finale è quello che più facilmente riesce a spiegare come e dove intervenire. Il problema della sicurezza viene ancora considerato irrilevante: proviamo a risolverlo mettendo delle toppe tardive con un po’ più di polizia, un po’ più di presidi e gli orari ridotti. E questo non è un argomento di destra o di sinistra.

Anche perché nel tema della sicurezza rientra la violenza stradale.

Sì, e anche da questo punto di vista il tipo di progettazione fa la differenza. Quest’anno, il primo giorno di università, ho fatto un test ai miei studenti, chiedendo loro quale fosse l’emergenza collettiva più importante. Mi aspettavo dicessero la crisi climatica, la povertà o il lavoro, ma il primo tema emerso è stato quello della sicurezza, dell’incolumità.

Nel libro parli di una «crisi dell’immaginazione» nel mondo dell’architettura. È quella che manca per utilizzare sapientemente i sette milioni di edifici inutilizzati (Istat, 2017) al posto di continuare a costruire? Come dovremmo sfruttare questi spazi vuoti?

Com’è noto, la produzione edilizia non risponde a una relazione tra domanda e offerta, ma a una questione di ordine meramente fiscale e finanziario. Siamo il Paese che costruisce più vani per famiglie, ma viviamo un’emergenza abitativa trasversale. Siamo ancora molto bon ton, le amministrazioni non agiscono e il tema viene lasciato al mercato, che fa il suo gioco. Cosa c’entrano le donne in tutto questo? Le donne che si sono sempre occupate di case, di abitare e di design hanno anche oggi le capacità di sfoderare un progetto strategico utopico. Alle donne deve spettare sia la cura – come in passato – sia la curiosità, che è quel pensiero lungo, strategico e politico che rompe gli schemi. Abbiamo ereditato delle grandi utopie architettoniche dal Novecento, l’ultima è la Città dei 15 minuti di Moreno, e penso che oggi ci sia bisogno di un’utopia femminista che parta dalla realtà, credendo nella possibilità del cambiamento.

Nel libro dici che «non c’è domanda più bella per una studiosa di città che sentirsi dire come saranno le città del futuro». Un bell’assist per chiudere questa intervista…

È la domanda più bella perché di solito non viene fatta alle donne. Rubo al maschile quella leggerezza con la quale gli uomini raccontano il mondo che verrà. Ti dico quindi che, secondo me, le città del futuro saranno immerse nella natura. Saranno luoghi in cui il verde organizzerà gli spazi. La vicinanza con la natura deve far sì che in mezzo alle case ci siano spazi pubblici più importanti. Nella città del futuro ci si potrà muovere in sicurezza perché cammineremo e pedaleremo di più. E con l’intelligenza artificiale e il digitale potremo gestire meglio le città con strumenti che oggi appena appena ci servono per progettare. In conclusione, vorrei che le donne che leggono il mio libro trovassero il coraggio di prendere la parola. […]


(Linkiesta, 11 novembre 2023)

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