20 Novembre 2023
Fanpage

Cos’è la cultura dello stupro e cosa c’entra con il femminicidio di Giulia Cecchettin

di Jennifer Guerra


La sorella di Giulia Cecchettin, Elena, ha detto che l’uomo che ha ucciso Giulia è figlio della cultura dello stupro e del patriarcato. I due concetti sono collegati, e cercano di spiegare perché la violenza di genere sia così pervasiva. Nel caso di Cecchettin, l’indifferenza di fronte a certi comportamenti è stata la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


Il femminicidio di Giulia Cecchettin, studentessa della provincia di Venezia uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta, è uno di quei casi che difficilmente dimenticheremo e che sta causando proteste e manifestazioni in tutta Italia. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera ha scritto che Turetta non è un mostro né un malato, ma un «figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro». Sin dalle prime ore dopo il ritrovamento del corpo di Cecchettin, la sorella si è mobilitata per spiegare che il suo omicidio non è un caso isolato né una questione privata, ma un crimine che si inserisce in una cornice culturale più ampia che avvalla, normalizza se non addirittura incoraggia la violenza di genere.

L’espressione “cultura dello stupro” si è diffusa negli ambienti femministi negli anni 2000 per alludere a tutti quei processi culturali che considerano lo stupro e la violenza sulle donne come qualcosa di normale e inevitabile. Quando si dice che gli uomini e le donne crescono in una “cultura dello stupro” non si intende che i genitori educhino volutamente gli uomini a commettere abusi sulle donne, ma che diverse manifestazioni culturali contribuiscono a radicare l’idea che essi siano qualcosa che fa parte del modo in cui stanno le cose. Questo sistema ha conseguenze gravi per tutti i soggetti coinvolti: gli uomini crescono con un senso di impunità nei confronti della violenza di genere e le donne tendono a non riconoscerla o a minimizzarla quando la subiscono.

In un articolo sullo storico giornale femminista off our backs, Alyn Pearson spiega la cultura dello stupro attraverso la metafora del tifo e dell’influenza stagionale. Siamo abituati a pensare che lo stupro sia come il tifo: una malattia improvvisa ed epidemica che colpisce una popolazione a causa di comportamenti sbagliati. In realtà, lo stupro somiglia più all’influenza stagionale, una malattia non epidemica ma endemica, ovvero che ormai è entrata a far parte dell’ambiente che ci circonda. Proprio perché così comune, l’influenza è oggetto di miti e saggezza popolare (“Se prendi freddo, ti viene l’influenza”) e tutti si aspettano di esserne affetti prima o poi nella vita. L’influenza si diffonde perché le persone la sottovalutano, starnutiscono senza mettersi la mano davanti al naso o vanno in giro anche se hanno la febbre. Ma come è possibile vaccinarsi per l’influenza, così anche per la cultura dello stupro.

La “cultura dello stupro” non è l’unica teoria possibile per spiegare la pervasività della violenza di genere, un fenomeno che stando ai dati dell’Istat (in linea con quelli globali raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità) colpisce una donna su tre. Prima dell’avvento del movimento femminista, la violenza di genere era considerata un problema morale, dove la singola persona che abusava di una donna diventava rappresentante di una società depravata o senza valori. Negli anni ’70, la teorica femminista Susan Brownmiller suggerì invece che lo stupro non è una questione di desiderio sessuale o di perversione, ma un esercizio di potere. La violenza di genere diventa così un meccanismo di controllo che serve a tenere a bada le donne e a costringerle a vivere nella paura.

Nei decenni successivi le studiose femministe aggiunsero altri elementi al quadro: secondo alcune teoriche radicali, anche la pornografia ha un ruolo nell’incoraggiare la violenza di genere, mentre altre suggerirono la teoria del “cultural spillover”, ovvero che la responsabilità dello stupro non va ricondotta soltanto a credenze e comportamenti che condonano esplicitamente la violenza di genere, ma a tutto un sistema che la legittima in maniera indiretta, come le punizioni corporali, la violenza istituzionale e dei mass media, eccetera. Tutte queste teorie hanno una base in comune, ovvero l’idea che la gerarchia fra i sessi, chiamata anche “patriarcato”, stia alla radice della violenza di genere. Questa premessa è accettata anche da numerose leggi e provvedimenti, come la Convenzione di Istanbul, che ricorda nei suoi preamboli che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione» e che essa ha una “natura strutturale”.

Dire che la violenza di genere ha una natura strutturale è un’affermazione che ha importanti conseguenze: la prima è che la violenza non è innata negli uomini, non è dettata da meccanismi biologici o da istinti ingovernabili; la seconda è che essendo una questione culturale e legata alle strutture di potere, si può sconfiggere. Il patriarcato infatti non è una caratteristica intrinseca maschile né una specie di associazione segreta in cui gli uomini si mettono d’accordo per sottomettere le donne. Il termine è stato usato inizialmente da sociologi e antropologi per descrivere una società in cui la figura del padre è al vertice della catena di comando della comunità. Le pensatrici femministe hanno poi adottato questa espressione per indicare più in generale un sistema in cui il genere è il principio organizzatore. Mentre le femministe radicali come Kate Millett credono che il patriarcato si manifesti innanzitutto attraverso la sessualità, le femministe marxiste hanno proposto una teoria che collega il patriarcato all’esclusione delle donne dai processi produttivi e al loro confinamento nella sfera domestica.

Oggi quando si parla di patriarcato si allude a entrambe le cose: patriarcali sono tanto la cultura quanto la struttura sociale ed economica. Ciò ha un’altra, importante conseguenza, ovvero che anche le donne sono immerse e partecipano alla società patriarcale, interiorizzandone gli schemi di pensiero e le prescrizioni comportamentali. La differenza sostanziale è che il movimento femminista ha permesso a molte donne di riconoscere e liberarsi da queste richieste, impegnandole a costruire un modo diverso di pensarsi e vivere le loro vite. Per gli uomini, eccetto quelli che si avvicinano al pensiero femminista, questo processo deve ancora in larga parte avvenire. Parlare di cultura patriarcale e di cultura dello stupro non significa cancellare le responsabilità individuali o addossare la colpa a “tutti gli uomini”, ma sottolineare che tutti, a prescindere dal genere, siamo compartecipi di quella cultura.

Gli uomini però sono investiti da una responsabilità ulteriore, che è quella di prendere coscienza di questa partecipazione e provare a smantellare molte delle manifestazioni della cultura dello stupro che avvengono fra pari. Dalle dichiarazioni di conoscenti e familiari di Filippo Turetta, pian piano emerge che molti erano consapevoli dei suoi comportamenti asfissianti nei confronti di Giulia Cecchettin e del suo disagio psichico. Oggi abbiamo il dovere di domandarci cosa sarebbe successo se, anziché stare tutti in silenzio e considerare i suoi i tipici comportamenti di uno “un po’ geloso” o di un “bravo ragazzo”, qualcuno fosse intervenuto. Quel silenzio, quell’indifferenza, quella convinzione che fosse tutto nella norma sono la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


(Fanpage.it, 20 novembre 2023)

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