30 Ottobre 2021
Feminist Post

Ddl Zan: chiamare le cose con il loro nome

di Marina Terragni


Un breve commento, dopo l’archiviazione del ddl Zan sull’omobitransfobia, destinato soprattutto alle sorelle e amiche non italiane che ci chiedono di spiegare; e a chi, fra le italiane, non abbia ancora chiaro quello che è successo.


Più o meno un anno fa il ddl Zan contro l’omobitransfobia è stato approvato alla Camera nel silenzio e nella disattenzione generale. In quella fase i media hanno del tutto oscurato il dibattito, mentre l’ondata Covid in corso – in Italia non era ancora cominciata la campagna vaccinale – stava catalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica. Il centrosinistra aveva votato compattamente a favore, cosa che non si è ripetuta quando il ddl è arrivato al Senato per l’approvazione definitiva. La verità è che la gran parte delle deputate e dei deputati, come è stato in seguito riconosciuto dal alcuni tra loro (primo fra tutti Stefano Fassina), non aveva davvero capito quello che stava approvando. Convinti di votare una legge contro i crimini di odio ai danni delle persone omosessuali e transessuali, non avevano compreso che il vero core della legge era l’identità di genere, primo passo in direzione del self-id.

In Italia è in vigore una legge, la 164/82, non dissimile dal Gender Recognition Act inglese, che regola il percorso per il “cambiamento di sesso”, percorso che si conclude con la pronuncia di un tribunale. Questa legge è stata aggiornata negli anni da una serie di sentenze: per esempio, oggi non è più richiesta la mutilazione chirurgica per ottenere il cambio di sesso sui documenti. Resta tuttavia necessario affrontare tutto il percorso, con perizie e sentenza finale. Quello che il ddl Zan intendeva introdurre surrettiziamente era l’autocertificazione di genere o self-id.

I deputati, dicevamo, non l’avevano capito. Molti cittadini non l’hanno capito nemmeno oggi. Ma noi femministe radicali sì. La lotta è stata a mani nude, e davvero molto dura, in particolare su due fronti: 1. rompere il silenzio dei media, 2. interloquire con il centrosinistra -area politica della grande maggioranza fra noi – per apportare modifiche al testo del ddl.

Il primo obiettivo l’abbiamo in qualche modo raggiunto: con grande fatica siamo riuscite a “bucare”, abbiamo fatto un grande lavoro sui social media, siamo uscite sui giornali, abbiamo strappato qualche passaggio in tv, siamo state audite in Senato. Il secondo obiettivo, interloquire con i proponenti, l’abbiamo del tutto mancato. Con rarissime eccezioni, nessuno ha mai voluto ascoltarci e confrontarsi con noi, dal primo firmatario Alessandro Zan, ai segretari dei partiti di sinistra (PD, M5S, LeU), alle donne di quei partiti.

Un muro invalicabile, una sordità assoluta, accompagnata da sprezzo misogino: siete una minoranza retriva, non rappresentate nessuno, e così via.

Le nostre obiezioni erano fondate e ragionevoli: oltre al no all’identità di genere (art.1) chiedevamo che la legge non venisse allargata all’odio misogino – le donne non sono una minoranza da tutelare ma la maggioranza del genere umano, e il femminismo non aveva mai chiesto una legge simile, soprattutto se concessa da misogini favorevoli a utero in affitto e “sex work”-. Chiedevamo che la propaganda transattivista restasse fuori dalle scuole (art.7) e che la libertà di espressione fosse davvero garantita (art. 4).

Abbiamo perfino proposto che si tornasse a un precedente disegno di legge (Scalfarotto-Annibali) che avrebbe garantito davvero la tutela delle persone omosessuali e transessuali.

I nostri argomenti sono stati ripresi e utilizzati dai partiti di destra e dai moderati: è stato davvero sorprendente sentire nominare Judith Butler e il transumanesimo dai deputati conservatori. Ma come abbiamo visto hanno fatto breccia anche presso una piccola parte della sinistra, che alla fine non ha sostenuto il disegno di legge, facendo mancare i numeri necessari per procedere nell’iter di approvazione al Senato. È stata qui la nostra vittoria.

Abbiamo il fondato sospetto che una parte degli stessi proponenti abbia voluto stoppare la legge, che se approvata avrebbe aperto scenari davvero difficili da gestire e giustificare di fronte a un’opinione pubblica in grande parte sfavorevole al self-id, ma tuttora ignara che il vero obiettivo del ddl fosse quello.

E dispiace davvero che le persone omosessuali e transessuali non abbiano ottenuto la tutela che chiedevano a causa della protervia del transattivismo queer: i veri omofobici e transfobici sono proprio loro.

Per noi e per tutte, una lezione: non arrendersi, mai. Oggi lo diciamo soprattutto alle sorelle spagnole e tedesche che si trovano a lottare contro leggi simili. Non avremmo mai creduto di farcela, a mani nude, contro un mainstream universale schierato a favore del ddl, ma non ci siamo lasciate scoraggiare e abbiamo raggiunto l’obiettivo, sia pure amaramente. E soprattutto, pretendere che le cose vengano chiamate con il loro nome. Non consentire che una legge il cui scopo è introdurre il self-id si presenti come qualcos’altro, mascherando il vero obiettivo dietro a proposte più ragionevoli e condivise.

Ogni volta che vedete menzionata l’identità di genere, aguzzate le orecchie, e preparatevi a lottare.


Marina Terragni fa parte di RadFem Italia e WHRC (Women’s Human Rights Campaign) Italy.


(https://feministpost.it//, 30 ottobre 2021)

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