12 Maggio 2023
Noi Donne

Donne di governo: Aung San Suu Kyi

di Giancarla Codrignani


Nel 1947 la Birmania negoziò l’indipendenza dal Regno Unito in mezzo a lotte nazionaliste feroci: fu ucciso anche il generale Aung San, uno dei leader della trattativa. Lasciava una figlia di due anni alle cure della madre Khin Kyi, ambasciatrice in India, mentre la Birmania nel 1962 avrebbe incominciato a sperimentare la serie dei colpi di stato militari.

Cresciuta, la figlia lavorò per le Nazioni Unite, si innamorò, si sposò e nel 1988 rientrò per assistere la madre. Il paese protestava contro la dittatura di Bo Ne Win e Aung riprese le fila dell’impegno politico del padre e chiese al governo la formazione di un comitato promotore di libere elezioni: diventò immediatamente leader mentre ricominciava la repressione violenta dei militari.

Diventata segretaria della Lega Nazionale per la Democrazia, finì agli arresti, poteva espatriare per non più rientrare (era moglie di uno straniero, causa di esclusione politico-nazionalista); rifiutò. Ormai rappresentava l’opposizione democratica in un paese militarizzato che, tuttavia, aveva fissato per il 1990 le elezioni, vinte dalla Lega; Aung doveva essere premier, ma la giunta revocò i risultati elettorali e la riconsegnò agli arresti domiciliari.

Nel 1991 avviene la designazione al Premio Nobel, ma mentre Aung rifiutava di uscire dal paese, nessuno riusciva – nonostante l’intercessione del segretario Onu e di Giovanni Paolo II – ad andare a trovarla, nemmeno il marito che morì nel 1999.

La segregazione continuò, nonostante il caso della grande lady fosse sempre più internazionale, fino al 2000, anno della consegna della laurea honoris causa dell’Università di Bologna, che poté ricevere di persona. Solo nel 2010 riacquistò la libertà e poté uscire dal Paese e rientrare senza problemi. Fece un viaggio negli USA. Nel 2011 ottenne un seggio in Parlamento.

Nel 2015 le prime elezioni libere diedero la vittoria alla Lega e Aung era in procinto di assumere la carica di prima ministra, ma le fu impedito da un altro blocco voluto dai militari. Le elezioni successive la riportarono in sella. Non stabilmente: i golpe la seguirono. Fu condannata a quattro anni per violazione delle regole anti-virus. Recuperò nel 2021, in elezioni che furono subito contestate con accuse di frode, corruzione, violazione del segreto di Stato: al 31 dicembre 2022 ha accumulato 33 anni di carcerazione.

Fin qui la – necessaria – biografia della politica (leggasi “donna che fa politica”): a parte il fatto che se si fosse trattato di un uomo sarebbe “desaparecido”, questa donna politica perseguitata non porta connotazione di genere, a meno che non si voglia sottolinearne l’immagine. Non si può evitare di ammirare questa orientale anche per il suo carattere: una donna che stabilisce in ordine gerarchico i valori, mettendo al primo posto quello che chiamiamo il dovere: il rientro per rispetto della mamma da assistere, poi l’abbandono del marito ammalato di cancro e che ha rifiutato di rivedere per non danneggiare “la causa” a cui si è votata, quella del suo popolo che ha collocato le proprie aspettative nella sua persona.

Gli orientali hanno una diversa educazione, ma questi atti di eroismo sono “sentiti” da tutti perché le donne dovrebbero strapparsi il cuore solo per la famiglia, non per i loro concittadini e i propri ideali. Comunque possiamo usare il termine eroismo.

Quello che non è eroico è il comportamento degli Stati democratici, che sostengono di fatto la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. La dittatura militare del Myanmar – National Unity Governement, “governo di unità nazionale” –nell’ultimo colpo di stato ha attuato repressioni che hanno causato 11.000 morti, oltre 20.000 carcerati, e “punizioni collettive”, ovvero distruzioni di coltivazioni, allevamenti eccetera. Inoltre ha soppresso il partito di Aung San Suu Kyi. Aveva promesso il rilascio di 2.200 prigionieri politici in maggio, ma fra loro non c’è il nome di Aung.

La condanna a 23 anni che le è stata comminata è condanna a vita: Aung ha settasette anni e la sua non è stata una carriera, ma la personificazione di un simbolo di libertà per il paese birmano in cui gli oppositori si organizzano in clandestinità, aiutati dalla solidarietà sporadica di simpatizzanti e di studiosi che “lamentano” che si tolleri una situazione di estrema illegittimità.

L’Onu la parte sua tenta di farla, ma non può garantire la maggioranza dei voti a sostegno di una risoluzione a cui nessuno – tanto meno i più potenti, gli USA che pure l’hanno firmata – vuole dare seguito. L’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, a guida Indonesia], si dice, non può far nulla perché delibera per consenso ed è divisa. La Cina ha mandato un osservatore nel Nord, dove i Rohingya musulmani costituiscono un altro annoso problema.

Ma mentre combattiamo una guerra e prevediamo di partecipare ad altre, in Birmania, uomini e donne come noi, sono soli.


(Noi Donne, 12 maggio 2023)

Print Friendly, PDF & Email