20 Febbraio 2022
Io Donna

Dottoresse afghane: «Vogliamo ricominciare a salvare vite. Le vostre»

di Anna Alberti


Mahtab e Sahar, ginecologhe afghane, lavoravano a Herat nel Centro senologico della Fondazione Umberto Veronesi. Sei mesi fa sono riuscite a scappare, con uno degli ultimi voli. Il loro sogno è indossare di nuovo il camice bianco


«Scusate, non è che avete due camici bianchi? Ci sentiremmo più a nostro agio…». Comincia così il nostro incontro con Mahtab, 40 anni, e Sahar, 34 anni, ginecologhe afghane in forze sino all’agosto scorso al Centro per la diagnosi di tumore al seno di Herat, aperto nel 2013 da Fondazione Umberto Veronesi e chiuso con l’avanzata talebana nel nord ovest dell’Afghanistan nel timore di ritorsioni contro il personale, tutto femminile.

Evacuate precipitosamente insieme al resto dello staff e alle famiglie, e atterrate a Roma il 19 agosto scorso con gli ultimi voli militari da Kabul grazie all’impegno della Fondazione e dell’Ambasciata italiana, le dottoresse afghane dopo sei mesi accettano di raccontarsi, con l’aiuto di un interprete.

Occhi scuri e bellissimi che spesso si inumidiscono, offrono la loro testimonianza pensando alle colleghe senza voce rimaste in balia del regime talebano, private di ogni diritto e confinate in casa (basti pensare al divieto di viaggiare per oltre 72 chilometri dal domicilio se non accompagnate da un parente stretto, ennesima interpretazione in senso restrittivo della legge islamica da parte del ministero per la Propagazione della virtù e la prevenzione del vizio).

«La ricerca affannosa di hjiab coprenti per nascondere le nostre identità, l’abbandono delle pazienti, l’addio ai familiari ammutoliti, la porta di casa chiusa in tutta fretta dietro ai ricordi più cari, l’orrore delle ultime ore nelle strade di Kabul, tra check-point e spari… Sono immagini che non si cancellano» racconta Mahtab, coordinatrice del Centro e madre di quattro figli – il più piccolo di poco più di un anno, la più grande di 10 – arrivata in Italia insieme al marito, docente d’arte, e al fratello ingegnere, attualmente visiting professor alla Statale di Milano.

«Abbiamo lasciato tutto, siamo atterrate in Italia solo con gli abiti che avevamo addosso, laurea e documenti infilati nel bagaglio a mano. Prima vivevamo del nostro lavoro, guidavamo l’auto, avevamo una casa confortevole, riuscivamo ad aiutare anche i parenti meno fortunati. Ora dobbiamo ripartire da zero. Devo essere sincera, non tutti i giorni sono buoni. Ma siamo vive, i nostri cari sono vivi. Pian piano ricominciamo persino a immaginarci un futuro».

Ospitate in un centro protetto di Progetto Arca a pochi chilometri da Milano, dopo aver ottenuto lo status di rifugiate e un alloggio comunale, cercano di studiare pensando al domani. Un domani che per entrambe si chiama Medicina.

«La nostra giornata iniziava presto. Un caffè al volo con mia madre e mia sorella, anche lei ginecologa, poi di corsa al Centro senologico. C’era sempre una lunga fila di pazienti ad attenderci» ricorda Sahar. «Ogni giorno se ne aggiungeva qualcuna in più: eravamo un punto di riferimento, offrivamo un servizio di qualità e del tutto gratuito, che nella nostra provincia mancava. Si era sparsa la voce, le donne erano felici di venire da noi, finalmente qualcuno si occupava della loro salute. Si fidavano. E anche gli uomini: l’ambulatorio sorgeva accanto all’ospedale materno-infantile di Herat, il nostro staff era tutto femminile, in sala d’attesa accoglievamo anche i bambini. Facevamo ecografie, mammografie, prelievi citologici, inviando i nostri dati all’ospedale di Perugia dove avevamo frequentato un corso di formazione (il controllo qualità era curato dall’Apof, l’Associazione dei Patologi oltre frontiera, ndr)».

Un faro nella notte in un Paese di 38 milioni di abitanti dove si muore soprattutto di malattie infettive, mine antiuomo, armi da fuoco, e l’assistenza sanitaria non è garantita, specie alle donne. Qualche numero fornito da Mahtab rende l’idea: «In otto anni abbiamo seguito oltre novemila pazienti. Siamo partite con un solo ecografo, poi è arrivato il mammografo donato da Fondazione Veronesi, infine il servizio di citologia. Oltre a noi medici c’erano una biologa, due tecniche di radiologia, una data manager, più una receptionist. Ci pensate? Donne al servizio di altre donne. Ora tutto questo non c’è più. Secondo l’Oms, in Afghanistan ogni anno si contano 2300 decessi per cancro mammario e tremila nuove diagnosi: chi assisterà le nostre pazienti?».

«Dopo l’ambulatorio, nel pomeriggio mi spostavo in una clinica dove facevo nascere bambini, interventi ginecologici, cesarei. Alla sera rientravo a casa sfinita, ma c’erano i miei piccoli a rivitalizzarmi, i loro racconti, i compiti da finire: ogni angolo della casa risuonava dei loro richiami “mamma vieni qui”, “mamma, guarda cosa ho fatto oggi!”», continua Mahtab.

«Ho sempre cercato di bilanciare la mia attività professionale e quella familiare, di essere una buona madre e moglie oltre che un buon medico anche se, a essere onesta, sono consapevole di aver speso più tempo a occuparmi delle mie pazienti, a pensare alla loro salute. Noi ginecologhe eravamo amate e rispettate, ci spostavamo liberamente, il nostro lavoro era molto richiesto. Ma ultimamente la situazione era sempre più tesa. Ogni sera rientrando ci assicuravamo che fratelli, sorelle e parenti fossero tornati nelle loro case in pace. Finché all’inizio dell’estate abbiamo cominciato a sentire che chi collaborava con le organizzazioni internazionali non era più al sicuro.

A maggior ragione noi, donne afghane e operatrici sanitarie. Gli ultimi giorni al Centro sono stati un incubo: mentre i talebani avanzavano verso Herat, continuavano ad arrivarci racconti delle loro atrocità, di ritorsioni sui civili, sulle famiglie. Un giorno qualcuno aveva bussato alla porta di mia madre: cercavano me. A quel punto ci siamo riunite, e abbiamo chiesto aiuto a Fondazione Veronesi: eravamo tutti d’accordo, non restava che chiudere il Centro, fuggire verso la capitale, pensare all’espatrio.

Abbandonare quell’ambulatorio costruito con tanta fatica è stato difficilissimo, mi sono sentita morire. Ma la situazione stava precipitando. Dovevamo assolutamente prendere uno degli ultimi voli per Kabul. Così abbiamo riempito in fretta pochi bagagli. Poi ho guardato per l’ultima volta la nostra casa cercando di imprimermi nella memoria il suo odore: era tutto in ordine, i letti fatti, le mie belle teiere sulla mensola, i piatti lavati. Non riuscivo a chiudere quella porta, a infilare le chiavi, mi tremavano le mani. Ho chiesto a un’amica di farlo per me».

Nella capitale, il primo tentativo di espatrio il giorno di Ferragosto non va in porto. Solo tre giorni dopo, Mahtab, Sahar e le colleghe con le famiglie riescono a imbarcarsi su un volto militare per Roma. Un esodo con migliaia di disperati premuti all’ingresso dell’aeroporto. È Sahar a raccontare: «Di quelle ultime ore da incubo non riesco quasi a parlare: ricordo solo le preghiere, la certezza di morire a ogni sparo, i check point dei talebani, i bambini di Mahtab che piangevano terrorizzati. Poi il gate, la folla impazzita, la partenza convulsa con la gente aggrappata ai carrelli, le nostre poche cose abbandonate a terra, senza cibo per 36 ore filate – solo per i più piccoli Mahtab aveva portato un po’ di latte in polvere -, la tensione, il volo».

«Solo quando a Roma siamo scese dalla scaletta dell’aereo, ci siamo rese conto di essere al sicuro» rammenta Sahar. «A terra c’era il volto amico di Monica ad accoglierci (Monica Ramaioli, direttrice generale di Fondazione Umberto Veronesi, che in passato aveva organizzato la formazione del personale per l’apertura del Centro di Herat, ndr). E poi l’odore della pasta e del riso speziato, cibo e acqua in abbondanza per tutti, qualche maglietta di ricambio, le toilette pulite, i Carabinieri che facevano giocare i bambini… Sembrava un sogno. Ma al minimo rumore sobbalzavo, avevo ancora il rumore delle esplosioni nelle orecchie».

«All’inizio eravamo disorientate e spaesate. I primi tempi nel centro di accoglienza non sono stati facili: pochi spazi dove imparare a convivere tutti insieme, senza mai uscire per non dare nell’occhio» ammette Mahtab. «Ci ha ridato la forza di sperare la solidarietà degli italiani. La vicinanza delle volontarie, delle donne della Fondazione, che hanno acquistato per noi gli abiti a cui eravamo abituate, hanno scovato questi chador dai toni tenui e luminosi, recuperato colori e pennelli per mio fratello, che è un pittore. Negli alloggi protetti ci portano anche la spesa. Così ora cucino per tutti, preparo il mio riso al curry con il pollo come non avevo mai avuto tempo di fare a Herat. E i bambini si stanno finalmente rilassando, con noi genitori tutto il giorno accanto a loro, giocano spensierati. Uno dei piccoli, che ha un problema di salute importante, è stato preso in carico da un centro specializzato, qui a Milano. Nel momento in cui ho visto gli specialisti occuparsi con tanta cura di mio figlio ho capito che di tutto questo è valsa la pena».

Per Sahar, per la madre e la sorella, a documenti fatti è arrivato un alloggio del Comune. «Appena entrate abbiamo preparato un tè alla menta. E quando il suo profumo si è diffuso nell’aria ci siamo dette, ecco, anche qui è casa. Poi siamo uscite a fare la spesa da sole – prima erano gli altri a portarci il cibo. Abbiamo trovato un negozio di spezie dai sapori familiari, piccole cose semplici che ti danno il senso della vita. Ora il nostro obiettivo è imparare bene l’italiano, indispensabile per il riconoscimento della laurea, che richiede quattro esami piuttosto impegnativi. Chi ha studiato Medicina, dedicando anni e serate sui libri, conosce bene il valore di questa professione, la passione per il mestiere. Impossibile rinunciarvi».

E Mahtab aggiunge: «Preparare gli esami in inglese sarebbe stato più facile, ma faremo tutto quello che serve per poter tornare a fare i medici. L’Italia ha salvato le nostre vite, quelle dei nostri famigliari. Non vediamo l’ora di restituire questo bene supremo. Di salvare le vostre, di vite». Ricominciare da un camice bianco.


(iodonna.it, 20 febbraio 2022)

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