17 Giugno 2022
Ytali

Fermiamo le stragi di donne

di Venezia Manifesta


Contro i femminicidi annunciati e l’inerzia delle istituzioni. Un appello


Una donna uccisa quasi ogni giorno. Proviamo però a esaminare il fenomeno sotto un’altra angolatura, che è quella giusta: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Sembra che ci sia una sorta di resa dei conti con la libertà che le donne si sono conquistate, che fa molte vittime e che assomiglia tanto alla guerra. Ci sono scelte femminili che alcuni uomini non accettano: quando troncano una catena, sfuggono da una vita asfissiante e cercano una loro autonomia o semplicemente uno spazio e un tempo per ricominciare, a partire da sé. Quando a chiudere una relazione malata sono le donne alcuni uomini si vendicano e c’è da pensare che sentano di poterlo fare, di non avere particolari freni culturali o sociali che glielo impediscano: il pensiero della vendetta, o presunta tale, si fa strada senza trovare ostacoli. Lo hanno fatto in tanti, ormai in tantissimi. Viene da credere che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni. Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale. Anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile. Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo. Il diritto alla libertà di movimento impedisce per ora misure cautelari più decise. Una volta si diceva che le donne non denunciavano, quasi a caricarle di una responsabilità. Oggi invece denunciano ma ciò non le protegge a sufficienza. Che fare dunque per frenare questa strage? Due sono i piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione. I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia. Quasi tutti questi delitti avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita. Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo. Opporre dunque alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta. L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Ci si può ispirare alle modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti. Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita. Abbiamo dato il nostro sostegno al presidio di protesta, contro i femminicidi annunciati e l’inerzia delle istituzioni, che si è tenuto al Tribunale di Vicenza, venerdì mattina 17 giugno organizzato dai comitati MovimentiAMOci e MaternaMente e dalla rete di donne sopravvissute alla violenza e delle attiviste contro la violenza sulle donne che consegneranno una lettura-denuncia al Presidente del Tribunale e che invieranno anche alla Ministra Cartabia.


Per Venezia Manifesta: Tiziana Plebani, Franca Marcomin, Maria Teresa Menotto, Stefania Bertelli, Barbara Zanon, Rosanna Marcato, Paola Di Biagi, Mara Rumiz, Valentina Fanti, Anna Messinis, Monica Sambo


Se condividi l’appello e desideri firmarlo, puoi inviare la tua adesione via email a: Veneziamanifesta@gmail.com e/o tiplebani@libero.it


(Ytali, 17 giugno 2022)

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