13 Dicembre 2023
Il Post

Figlie e figli non riconosciuti che vogliono rintracciare la madre

di Alessandra Pellegrini De Luca


Maria Agnese Bellardita ha scoperto di essere stata adottata a ventott’anni: il giorno del funerale di suo padre una zia le disse che la donna che l’aveva partorita l’aveva lasciata davanti a una chiesa, e che i suoi genitori adottivi non avevano mai voluto che si sapesse. Molti anni dopo, al termine di una lunga ricerca che ha coinvolto il tribunale dei minori di Firenze, i Carabinieri e il suo avvocato, Bellardita ha scoperto una storia completamente diversa: a quella donna, che all’epoca aveva sedici anni, fu detto che la figlia era nata morta. Aveva partorito in un piccolo istituto per suore di Mozzo, vicino a Bergamo. I suoi genitori non volevano che lei crescesse la bambina, e d’accordo con le suore decisero di dare la neonata in adozione pochi giorni dopo la sua nascita.

Bellardita e la donna, ormai molto anziana, si sono incontrate per la prima volta il 23 dicembre del 2014, quasi dieci anni fa, nello studio legale delle nipoti di lei. Il loro è stato il primo caso in Italia di ricongiungimento tra madre e figlia o figlio non riconosciuto ottenuto attraverso il cosiddetto interpello, cioè la possibilità per le autorità di rintracciare una donna che abbia partorito in anonimato e chiederle, su richiesta del figlio non riconosciuto, se voglia revocare l’anonimato e incontrarlo.

È una possibilità prevista in diversi paesi europei, come Francia e Germania: in Italia è stata introdotta nel 2013, con una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il divieto allora in vigore di identificare la donna, previsto dalla legge sulle adozioni nazionali (dal 2001 quella legge prevedeva che le persone adottate potessero avere informazioni sui genitori biologici una volta compiuti i 25 anni, con l’eccezione proprio dei nati col parto in anonimato). La Corte ha anche chiesto al parlamento di fare una legge per definire con esattezza modi e tempi dell’interpello, cosa che non è ancora stata fatta: che si riesca quindi a contattare la donna per chiederle se vuole rimuovere l’anonimato o no dipende ancora molto dal singolo tribunale e dalla buona volontà dei singoli funzionari, con varie questioni irrisolte in mezzo.

Il diritto dei nati col parto in anonimato a conoscere le proprie origini biologiche è molto dibattuto, anche tra gli esperti, ed è stato oggetto di numerose sentenze di tribunali nazionali e internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo: le decisioni al riguardo devono bilanciare il diritto della donna all’anonimato e all’oblio con quello dei nati a conoscere le proprie origini. Quest’ultimo diritto è stato progressivamente riconosciuto a livello internazionale negli ultimi decenni, sia da paesi che da organi sovranazionali come il Consiglio d’Europa, un’istituzione che si occupa di democrazia e diritti umani e non c’entra con l’Unione Europea (da non confondere con il Consiglio Europeo). In Italia, la Corte costituzionale lo ha legato all’articolo 2 della Costituzione, sui diritti inviolabili delle persone.

A oggi, e anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, prevale comunque la volontà della donna: se lei non acconsente a rimuovere l’anonimato, il nato o la nata non potranno sapere chi è ed eventualmente incontrarla.

La storia di Bellardita fu molto raccontata, nel 2014, anche perché nel frattempo lei era entrata in contatto con il Comitato per il diritto alle origini biologiche, che su questo tema è molto attivo e negli anni ha organizzato manifestazioni e scritto proposte di legge. Il giorno in cui Bellardita incontrò la donna che l’aveva partorita, questa le disse che un primo dubbio sul fatto che lei fosse davvero nata morta dopo il parto le era venuto mesi prima di essere contattata dal tribunale: quando al bar aveva letto un articolo sull’Eco di Bergamo in cui si parlava di una donna nata il 21 gennaio del 1955, proprio il giorno in cui decenni prima aveva partorito lei, che cercava la propria madre biologica.

La donna raccontò a Bellardita anche di quando tanti anni prima, giorni dopo il parto, aveva chiesto alle suore dell’istituto di portarla nel cimitero in cui avevano seppellito la bambina: «Le mostrarono una piccola croce con su scritto “Maria” e le fecero credere, d’accordo coi genitori, che io ero stata seppellita lì», dice Bellardita. Dopo questa vicenda ha aperto un sito in cui raccoglie appelli di figli non riconosciuti, di donne che cercano figli da cui per varie ragioni si sono separate alla nascita, e più in generale di persone che cercano parenti biologici di cui hanno perso le tracce.

Per fare ricerche di questo tipo sono nati anche diversi gruppi su Facebook, che negli ultimi anni hanno permesso a diverse persone di ritrovarsi. Molte persone utilizzano anche test del DNA fai-da-te, sempre più diffusi anche se non sempre affidabili rispetto alle informazioni che promettono di fornire.

«Ci sono tante storie come la mia, di donne molto giovani a cui veniva detto che i figli erano nati morti, magari perché la famiglia non era in grado di mantenerli o perché non voleva che la donna diventasse madre in quel momento», dice Bellardita. Sul suo sito si trovano anche appelli di donne che hanno dato in adozione i figli dopo il parto su spinta di compagni o parenti, magari in situazioni di difficoltà emotiva o economica e pentendosene in un momento successivo. Altre donne, anni dopo aver partorito in anonimato, hanno cambiato idea sulla possibilità di conoscere i figli non riconosciuti.

In Italia la legge sul parto in anonimato consente alla donna di partorire in ospedale in condizioni di riservatezza, gratuitamente e indipendentemente dalla nazionalità e dal titolo di soggiorno; e poi di non riconoscere il bambino, di cui viene constatato lo stato di abbandono e la conseguente adottabilità. La possibilità del parto in anonimato era stata introdotta con l’obiettivo di evitare gli abbandoni di neonati o gli infanticidi, ed è tuttora fortemente sostenuta anche da ambienti cattolici che la considerano anche un mezzo per limitare le interruzioni di gravidanza.

Col parto in anonimato, nell’atto di nascita del bambino viene scritto «nato da donna che non consente di essere nominata». Un’altra norma prevede che il nome della donna che ha partorito, così come la sua cartella clinica, restino segreti per almeno 100 anni: è la cosiddetta “legge dei cent’anni”, o più dispregiativamente definita da alcuni la “punizione dei cent’anni”, che quest’anno è stata anche l’argomento del film di Alessandro Bardani Il più bel secolo della mia vita, con Valerio Lundini e Sergio Castellitto.

Al parto in anonimato si fa ricorso per poche centinaia di nati l’anno, e i numeri sono in calo: nel 2007 erano stati 642, nel 2021 sono stati 173. Il Comitato per il diritto alle origini biologiche ha stimato che i figli non riconosciuti che fanno richiesta per l’interpello siano invece 300-400 l’anno. Nel 60 per cento dei casi l’esito è positivo, nel senso che la donna che li ha partoriti acconsente a revocare il proprio anonimato, dice la presidente del Comitato Anna Arecchia.

A chiedere l’interpello spesso le persone arrivano dopo aver scoperto da grandi che non erano nate dai genitori che li avevano cresciuti. Bellardita racconta di essersi fatta per la prima volta delle domande sulle proprie origini dopo aver trovato, rovistando in casa da ragazza, una scatola piena di lettere scritte da sua madre. Notò con un certo stupore che in corrispondenza della sua data di nascita, il 21 gennaio 1955, non c’era nessun riferimento a lei o a una qualsiasi gravidanza: anni dopo aveva chiesto a sua zia se per caso fosse stata adottata, e sua zia le aveva risposto di sì.

In altri casi l’interesse verso le proprie origini viene suscitato dalla percezione di qualcosa di non detto: Arecchia, la presidente del Comitato, ha raccontato per esempio di essere cresciuta in un posto molto piccolo in cui attorno alle sue origini e alla sua storia, diversa dalle altre, circolavano molti pettegolezzi: «Lo sapevano tutti, ma nessuno me lo diceva: appena mi sono trasferita in una città più grande per studiare ho iniziato la mia ricerca, iniziando col reperire il mio atto di nascita integrale». È così che Arecchia ha scoperto di essere stata partorita in anonimato, da una donna che le assegnò il nome “Anna”, poi mantenuto dai genitori adottivi: sull’atto di nascita, visionato per questo articolo, le fu assegnato il cognome “Dive”, scelto invece dal funzionario dell’anagrafe.

In mancanza di una legge, le modalità di presentazione dell’interpello alla madre anonima variano. Nella sentenza del 2013 la Corte ha parlato di «un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza» alla donna e permetta di interpellarla per chiederle, su richiesta del figlio biologico, se voglia rimuovere l’anonimato e incontrarlo. Nella pratica le modalità con cui si procede sono disomogenee, basate prevalentemente su precedenti e prassi giudiziarie che si sono create nel corso degli ultimi anni.

Di solito l’istanza per interpellare la donna che ha partorito in anonimato viene presentata al tribunale dei minori della regione di residenza del figlio o della figlia che fa richiesta di incontrarla. Poi eventualmente la pratica passa al tribunale della provincia di nascita, se diverso da quello di residenza. In alcuni casi i giudici si sono rifiutati di procedere proprio appellandosi alla mancanza di una legge che definisse con chiarezza le modalità dell’interpello; in altri i tribunali hanno incaricato il comando provinciale dei Carabinieri, oppure i servizi sociali, di individuare e rintracciare la donna e chiederle se fosse disposta a rimuovere l’anonimato: «Sui commissariati questa nuova attività investigativa è piombata un po’ come una tegola: sono cose che non avevano mai fatto prima», dice Arecchia.

Nel procedimento per rintracciare la donna i soggetti coinvolti sono dunque molti: il tribunale, gli agenti delle forze dell’ordine, i servizi sociali, i reparti di maternità degli ospedali, chi gestisce i loro archivi e le loro cartelle. C’è poi il personale incaricato di contattare la madre, per esempio i funzionari comunali e delle anagrafi, che una volta ricevuto il certificato di assistenza al parto cercano l’indirizzo di residenza della donna. Alcuni tribunali inviano una lettera di convocazione, altri mandano fisicamente qualcuno a citofonare alla donna.

«È capitato che i funzionari andassero sotto casa della donna con un’ambulanza, in previsione di un suo possibile malore», dice Arecchia. In moltissimi casi le donne sono ormai anziane, l’interpello può essere scioccante e traumatico.

Arecchia dice di essere consapevole che i nati in anonimato in cerca delle proprie origini possono creare un «putiferio emotivo» nelle donne e nelle loro famiglie, così come dice di essere consapevole delle critiche che alcuni gruppi femministi rivolgono al Comitato per la sua attività, ritenuta in contrasto col diritto della donna all’anonimato e all’oblio. Le critiche arrivano anche da alcuni ambienti cattolici, che considerano le rivendicazioni del Comitato una minaccia al parto in anonimato.

Arecchia ritiene però che su questo genere di argomenti in Italia prevalga una «mentalità adultocentrica» poco interessata ai diritti dei nati, e su queste stesse basi si dice contraria a forme di procreazione assistita come la gestazione per altri, cioè quando la gravidanza è portata avanti da una persona per conto di altre persone. A suo dire infatti questa tecnica nega il diritto alle origini. In realtà la possibilità di mantenere contatti e relazioni tra nati e donna gestante esiste, dipende dalla regolamentazione della pratica ed è peraltro ampiamente utilizzata da molte famiglie formate attraverso questa tecnica: tutte possibilità poco discusse e conosciute in Italia, dove il dibattito è fortemente politicizzato.

La ricerca della donna che ha partorito in anonimato procede per gradi e può avere esiti molto diversi. Incendi o alluvioni possono aver distrutto gli archivi degli ospedali, per cui diventa impossibile risalire al nome della donna; i tribunali dei minori, che in Italia sono 29 e hanno gravi carenze di organico, possono condurre indagini in maniera superficiale; una volta rintracciata la donna non è raro scoprire che magari è morta anni prima (in questo caso, sempre per via della mancanza di una legge, non ci sono regole chiare sulla revocabilità dell’anonimato).

È stato proprio il caso di Arecchia: dopo cinque anni di ricerche ha scoperto che molti anni prima la donna che l’aveva partorita si era trasferita in Canada. Dopo mesi di tentativi e una rogatoria internazionale Arecchia ha infine avuto accesso al nome della donna, scoprendo che era morta. È andata comunque a Toronto, in Canada, e ha conosciuto i suoi altri tre figli: una di loro, l’unica che parlava italiano, l’ha accompagnata nel cimitero in cui era stata sepolta la donna, concludendo così una «ricerca durata una vita», per usare le parole di Arecchia.


(Il Post, 13 dicembre 2023, pubblicato con il titolo “I figli non riconosciuti che vogliono rintracciare le proprie origini biologiche”)

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